e

Giovanna I

 

 

LE REGINE

GIOVANNA I E II

DEL REGNO  DI NAPOLI

E GLI ANGIOINI

 

 

Michele E. Puglia

 

 

SOMMARIO: IL PAPA ASSEGNA COME FEUDO A CARLO I D’ANGIO’ IL REGNO DELL’UNA E DELL’ALTRA SICILIA; CARLO II D’ANGIO’ E I SOSPETTI SULLA SUCCESSIONE DEI FIGLI; IL RE ROBERTO CON LA SUA SAGGEZZA NON AVEVA PREVISTO LE DIFFICOLTA’ DEL MATRIMONIO TRA DUE BAMBINI; GIOVANNA SPOSA ANDREA D’UNGHERIA E DOPO IL SUO ASSASSINIO E’ CONTESA DAI DUE FRATELLI DI TARANTO; IL GIUDIZIO DEGLI STORICI MASCHILISTI SULLE DONNE EMERGENTI; FILIPPA LA CATANESE E I FAMILIARI PERDONO LA VITA E LE RICCHEZZE; LA GRAN TEMPESTA DI NAPOLI DESCRITTA DA PETRARCA; PRIMA DISCESA DI LUDOVICO D’UNGHERIA E SUE VENDETTE; IL CONCISTORO INDETTO DAL PAPA AD AVIGNONE PER GIUDICARE GIOVANNA I; SECONDA DISCESA DI LUDOVICO D’UNGHERIA; NUOVA INCORONAZIONE DI GIOVANNA I CON LUIGI DI TARANTO CHE MUORE; I NUOVI MARITI DI GIOVANNA I E L’ASPIRANTE DEL BALZO L’ELEZIONE DI DUE PAPI L’ASSASSINIO DI GIOVANNA; GIOVANNA I NEL GIUDIZIO DI BOCCACCIO E GIOVANNA I E II NEL SARCASTICO RACCONTO DI BRANTOME; LA PIAGA DEL BRIGANTAGGIO NEL REGNO RITENUTA DA DUMAS ELEMENTO NATURALE; LA SUCCESSIONE DI DUE BAMBINI LADISLAO E LUIGI SOSTENUTA DA DUE PAPI; MENTRE LADISLAO RAFFORZA LA SUA POSIZIONE LO SCISMA PROSEGUE CON LA ELEZIONE DI PAPI E ANTIPAPI; LE VICISSITUDINI DEL REGNO DI GIOVANNA II; GIOVANNA II LIBERATA DALLA SCHIAVITU’ DI GIACOMO CADE NELLE MANI DI SERGIANNI CARACCIOLO; MORTE DEI DUE GRANDI CAPITANI DI VENTURA ATTENDOLO SFORZA E BRACCIO DA MONTONE; ASSASSINIO DI SERGIANNI CARACCIOLO MORTE DI GIOVANNA II E SUA ATTIVITA’ LEGISLATIVA

  

 

 

Stemma di Carlo I d’Angiò

 

 

IL PAPA ASSEGNA

COME FEUDO

A CARLO I D’ANGIO’

IL REGNO DELL’UNA

 E DELL’ALTRA  SICILIA

 

 

 

C

arlo d’Angiò (1226-1285), figlio del re Luigi VIII di Francia e di Bianca di Castiglia, come ultimo dei figli, era destinato alla carriera ecclesiastica, ma per il suo temperamento e per una serie di circostanze. seguì la strada delle armi.

Aveva ventitre anni quando il conte Raimondo Berengario IV di Provenza e Folcalquier, prima di morire (1243) aveva lasciato la contea alla sua ultima figlia, Beatrice; il re Giacomo I d’Aragona intendeva sposarla per impadronirsi della contea e andò a metterla sotto assedio; ma Carlo, di carattere impetuoso e di animo combattivo e spietato, con l'esercito andò a liberare Beatrice, portandola a Parigi, sposandola, con gran pompa di festeggiamenti (1246). 

In questa occasione Carlo era armato cavaliere dal fratello, re Luigi IX di Francia, il quale, per effetto del matrimonio, diveniva conte di Provenza. Non solo; ma per la morte dei fratelli, ereditava le contee di Angiò e del Maine; le sue ambizioni erano però di maggior respiro, per cui si recava a Tunisi (1269) per prestare aiuto a suo fratello Luigi IX, ma lo trovava moribondo, colpito dalla peste, e fu Carlo a sottoscrivere col re di Tunisi un trattato in base al quale quest’ultimo avrebbe pagato ai re francesi un tributo di ventimila pistole all’anno.

Della contea di Provenza non facevano parte le città di Arles e Marsiglia, che per concessione dell'imperatore Federico II, erano repubbliche indipendenti; podestà di Arles era stato eletto Borallo del Balzo che esercitava la stessa funzione ad Avignone, il quale, intraprendente, intrigante e spinto da ambizione, con l'appoggio segreto della regina Bianca, si impegnò per far passare Arles (1251) e Avignone (1251) nel dominio dei fratelli Carlo d’Angiò e Alfonso di Poitiers.  Invece, Marsiglia che resisteva, intimorita dalla presenza dell'esercito comandato da Carlo, che aveva fatto un saccheggio dimostrativo dei campi intorno alla città, pur sottomettendosi, riusciva a mantenere i propri privilegi.

 Federico II e suoi discendenti (*), erano stati dichiarati dal papa nemici della Chiesa, in particolare re Manfredi, che si era impossessato del regno; Riccardo di Cornovaglia, fratello di Enrico III d’Inghilterra e Edmondo, figlio dello stesso Enrico III, furono sollecitati, uno dopo l’altro, prima dal papa Innocenzo IV (1243.1254), e poi da Alessandro IV (1264-1261),  ad assumere il regno di Sicilia come feudo della  Santa Sede, al fine di scacciare la Casa di Svevia.

Ma le trattative non andarono a buon fine, in quanto Riccardo e Edmondo non vollero accettare il regno di un principe di così alto valore, come Federico II; né riuscirono i maneggi del papa Urbano IV (1261-1264), il quale alla fine si rivolse a Carlo d’Angiò, di animo intraprendente e guerriero ambizioso; eletto nel frattempo senatore dal popolo romano, nonostante il papa si mostrasse contrario a questa carica, in quanto comportava il governo della città e il papa non voleva stranieri nel suo  governo.

Sulla indecisione di Carlo ad accettare il regno, interveniva la moglie Beatrice, contessa di Provenza. l’unica di tre sorelle a non essere regina, come le altre due (Margarita regina di Francia, moglie di Luigi IX e Leonora, regina d’Inghilterra); fu lei a spingere il marito ad accettare il regno, ma ebbe la sfortuna di morire di parto due anni dopo aver ricevuto l’incoronazione a trentanove anni  (1268).

Morto Urbano IV, gli era succeduto Clemente IV (1265-1268), che  provvide a mandare in Francia a Carlo il breve dell’investitura del reame di Sicilia (1265), e Carlo, nello stesso anno (maggio) si imbarcava a Marsiglia ben sapendo del pericolo rappresentato dalla flotta nemica di pisani e genovesi, che sosteneva Manfredi.

La fortuna volle che questa flotta fosse dispersa da una tempesta, proprio all’imboccatura del Tevere, piena di ostacoli che non permettevano l’ingresso alle navi; qui Carlo giunse con le sue galere e rimossi gli ostacoli, salito su  una nave sottile, risalendo il Tevere,  giunse al monastero di san Paolo fuori Roma.    

Carlo entrava in città (maggio) tra le acclamazioni del popolo, della nobiltà e dei magistrati usciti con una pompa che eguagliava quella degli antichi imperatori; recatosi nella chiesa di san Giovanni in Laterano, il papa rimasto a Perugia, aveva delegato i cardinali, Rodolfo Caprario, Ancherio Pantaleone, Riccardo Annibaldesco, Goffredo di Alatro e Matteo Ordino a officiare la cerimonia solenne con la quale fu investito del regno di Sicilia (citra e ultra Pharum), come Carlo I, il giorno dell’epifania (6 Gennaio 1266), detta dai francesi, festa del re; a memoria di questo giorno Carlo assegnava in cambio al Capitolo Vaticano, cinquanta once di oro annue.

Giunto a Roma il suo esercito comandato da Roberto, figlio del conte di Fiandra, seguito da numerosa nobiltà francese, Carlo, fu accompagnato dai cardinali, Ottaviano e Riccardo Annibaldesco, al confine del regno; giunti, in località Colonnella, il cardinale Ottaviano gli disse: “da qui in avanti il regno è tuo, vai con Dio”, e dopo avergli dato la benedizione se ne tornò a Roma, mentre il cardinale Riccardo lo accompagnava per spingere la popolazione a combattere contro Manfredi, nemico della Chiesa.

Carlo, liberatosi di Manfredi e Corradino, dopo aver distribuito tra i numerosi francesi e provenzali che lo avevano accompagnato, i feudi dei nobili svevi, organizzò il regno con magnificenza, rinforzato con armate terrestri e navali.

Con Carlo I il regno prosperò nelle finanze, industrie, commercio e nell’agricoltura; egli promosse allevamenti di animali da cortile;  in particolare aveva incrementato l’allevamento di cavalli della razza napoletana (**); il calabrese Bonifazio, gli aveva dedicato un libro di ippiatria (mns.) intitolato “Trattato del cavallo e della cura delle sue malattie  scritto in greco e tradotto dal domenicano Antonio Dapera.

Carlo I  era stato anche mecenate e aveva favorito le scienze e le lettere; aveva innalzato superbi edifici e chiese, edificato o abbellito edifici; in riconoscimento delle sue doti, altri principi, considerandolo potente e temuto, gli lasciavano le loro eredità (***).

Ma Carlo I aveva effettivamente ben regnato?

In parte, per le sue realizzazioni si può dire che avesse ben regnato ma, poco prima di morire (****) dovette subire la sanguinosa rivolta del Vespro, da parte dei siciliani (1262) perché il suo ben regnare, aveva avuto il suo lato negativo; vi era stato chi lo aveva criticato aspramente in  quanto Carlo I aveva lasciato che i nobili francesi trattassero i sudditi con arroganza e con le vessazioni, come popolo conquistato.

I francesi odiavano Palermo dove governava il giustiziere di Val Manzana, Giovanni di san Remigio, mentre il vicario del re, Erberto d'Orleans risiedeva in Messina.

Avvenne che il martedì (31 Marzo 1282) successivo alla Pasqua (29 Marzo), nella chiesa di Santo Spirito, agenti del fisco riconoscendo alcuni debitori, li arrestassero; non solo: i francesi si comportavano villanamente con le donne e un certo Droetto, fingendo di cercare delle armi sul corpo di una donna, le palpeggiava il seno (secondo altra versione la donna sarebbe stata la moglie di Giovanni da Procida); la donna sveniva e mentre lo sposo urlava “muoiano questi francesi”, usciva dalla folla un giovane che trafiggeva Droetto e al grido muoiano i francesi si dava inizio alla strage dei francesi: in meno di due ore furono sgozzati duemila francesi; per riconoscerli facevano pronunciare la parola Sicilia, in quanto i francesi non pronunciavano la c; la rivolta, che aveva avuto inizio in questo modo spontaneo, fu proseguita da Giovanni da Procida e dai suoi compagni.

Carlo I fu costretto a ritirarsi e regnare sulla parte ultra pharum, mentre la Sicilia (citra pharum) diveniva regno indipendente, assegnato a Pietro I d’Aragona il quale, chiamato (1286) a Barcellona per la morte di suo fratello Alfonso, lasciava il regno a suo fratello Federigo II (nominato re di Trinacria), rimanendo soggetto agli aragonesi, con tutte le conseguenze negative per il futuro che comporterà questa separazione.

Ciò che di negativo era stato detto di Carlo I, era che “pur avendo reso Napoli metropoli del regno, oppresse la parte più bella d’Italia; non vietò le concussioni e le aperte rapine dei suoi ingordi ufficiali; fu il quarto flagello della nostra patria (scriveva Castelli in "Fasti di Sicilia" 1820, riprendendo Galanti), senza alcuna virtù, smoderatamente superbo e borioso che si guardava come re del mondo, trattava i sudditi con disprezzo e col più crudele dispotismo, divorato da fervida ambizione, barbaro più di un trace o di un cannibale. Gli si imputò di aver fatto avvelenare san Tommaso d'Aquino (1274), temendo che riferisse al papa Gregorio X, le sue crudeltà. Era questa una voce al tempo di Dante.

D’Egly (Histoire des rois de Sicile, Paris 1741), appoggiato da alcuni storici, lo faceva morire penitente, gli appropriava le belle qualità dello splendore, della sobrietà. del coraggio; lo chiamava protettore delle lettere, casto, grave nei discorsi e nelle realizzazioni; nel rovescio della medaglia, lo scopriva macchiato dalla estrema ambizione, collerico, desideroso di vendetta, severo fino alla barbarie; troppo inclinato ai suoi provenzali; non badò a trarre dalla sua parte due grandi uomini siciliani, Procida e Lauria e concludeva che “se seppe conquistare, non conosceva nessuna maniera di sapere ben regnare”: insomma fu inetto in politica e fu modello per cattivi principi.

In ultima analisi, riassumeva tutto ciò che può soddifare due partiti, pro e contro, che si formano di norma sui personaggi di rilievo (si legga in Articoli: Doktor Faust ecc.)

 

 

 

 

*) Corrado, re dei romani, figlio legittimo di Federico II, era in Germania quando apprese la morte del padre, dal quale riceveva in eredità il Regno dell’una e dell’altra Sicilia, mentre Manfredi, suo fratello naturale, era nominato governatore.

Corrado, venne in Italia nel 1251 e in Lombardia trovò molto scarse le forze ghibelline, così come in Romagna e Toscana e imbarcatosi dal Friuli giunse con l'esercito a Manfredonia, accampandosi  nelle sue vicinanze, a Siponto.

Il suo esercito accresciuto dai saraceni di Lucera e della Sicilia debellò i ribelli; poi si rivolse ad assediare Napoli, ordinando a Manfredi di far venire le galere dalla Sicilia. I napoletani non avevano forze sufficienti a difendersi e chiesto aiuto al papa dal quale ebbero solo promesse; esaurite tutte le scorte di carne, tra cavalli, cani e altri sordidi animali, si arresero a patto della salvezza dei cittadini. Ma la città fu messa a sacco e furono compiute ogni genere di crudeltà e di libidine nei confronti di donne, vecchi e bambini;  le antiche mura furono abbattute e dopo due mesi Corrado se ne partì, dando a Manfredi, tanto simile al padre in crudeltà, il secondo grado di comando nel regno, dopo di lui.

Ma nello stesso tempo, Corrado, ritenendo Manfredi di animo regio e adatto più a dominare che a governare, poiché il principato di Taranto comprendeva molti altri feudi, per indebolirlo, pensò di togliergli parte di questi feudi e gli tolse il contado di Gravina, di Tricarico, di Montescaglioso; inoltre tolse dal principato la nomina del Giustiziere, che spettava a Manfredi, sostituendolo con uno di sua nomina, per ogni provincia del regno. Non solo, ma mandò via dal regno tutti i parenti del lato materno che si rifugiarono in Romania presso la sorella Costanza, imperatrice di Costantinopoli; mentre  Manfredi accettava tutto con dissimulazione e prudenza (De Saris, Istoria del regno di Napoli, 1792).

Corrado si trovava a Melfi, quando moriva all’improvviso (1253) e secondo Collenuccio, Manfredi lo aveva fatto avvelenare dal suo medico (Di Costanzo, Istoria del regno di Napoli, 1805), ma, secondo De Saris, sarebbe stato avvelenato dal fratello Enrico ... che aveva  dodici anni ed era  venuto dalla Sicilia!

Corrado aveva designato Manfredi, tutore del figlio Corradino (che con la madre Elisabetta si trovava in Germania); Manfredi, dopo essersi assicurato il possesso di tutta la Sicilia e della Puglia, e dopo aver messo in giro la voce che Corradino fosse morto (1257), si fece incoronare a Palermo, re di Sicilia e di Puglia.

Carlo con il suo esercito, dopo aver sconfitto Manfredi (a Benevento) ed essersi liberato di lui  facendogli mozzare la testa, si era rivolto contro Corradino, il quale,  datosi alla fuga a Tagliacozzo, fu preso presso Astura da un Frangipane e consegnato a Carlo I; questo lo fece  processare e condannare, con iniqua sentenza alla decapitazione, che ebbe luogo a Napoli (1268); la sua morte, per la giovane età, commosse i contemporanei (celebrato da Dante Inf. XXVIII-17-18: Summonte Istoria del Regno di Napoli, 1748)). L’eredità del regno era raccolta da Pietro d’Aragona che aveva sposato Costanza, figlia di Manfredi, a seguito della rivolta del Vespro.

**) Di cui furono dotate tutte le province, dove tutti i cavalli erano marchiati e registrati  con disposizioni severissime (era lui che firmava quando un cavallo usciva dal regno); il valore di uno stallone da battaglia si aggirava intorno a 50 once d’oro (circa cinquantamila dei nostri euro, centomilioni delle vecchie lire!).

***) Baldovino II, imperatore di Costantinopoli, gli cedette il principato di Acaia (appartenuto a Guglielmo di Villeharduin) e Morea, il regno di Tessalonica e di tutte le città, eccetto Costantinopoli e le isole di Lesbo, Samo, Cos, e Chios; il regno di Albania, Durazzo e Corfù dichiarandolo loro sovrano; Maria di Antiochia gli cedeva il regno di Gerusalemme.

****)  Si stava recando a Brindisi, quando si ammalava a Manfredonia dove moriva nel 1285; il corpo fu portato a Napoli e sepolto nella chiesa Maggiore

 

 

 

CARLO II D’ANGIO’

E I SOSPETTI

SULLA SUCCESSIONE

DEI FIGLI

 

 

  

C

arlo II (1254-1309), re di Napoli e Gerusalemme, conte di Provenza (claudicante a causa dell’anca spostata, Collenuccio riferisce che alcuni scrittori lo descrivevano alla napoletana, sciancato), aveva sposato Maria d’Ungheria figlia dell’ultimo re Bela IV (1323), ultima erede di quel regno, dalla quale aveva avuto quattordici figli (*) oltre agli illegittimi avuti dalle amanti.

Di costoro, il primogenito Carlo Martello (1272-1295), essendo morto il re Ladislao IV (1292) d’Ungheria e Dalmazia  ed essendo divenuta Maria, erede legittima del regno, dal padre Carlo II, era designato come erede del regno d’Ungheria e Dalmazia, ed era incoronato a Napoli. 

Carlo Martello, con la moglie Clemenza, moriva di peste (1295), lasciando un figlio che gli succedeva, Caroberto (dai nomi dei bisavi Carlo e Roberto, ma per Villani era derivato da Carlo-Umberto - Napoli 1288-Buda 1342), come Carlo II re d’Ungheria (1308), fondatore di questa limitata dinastia, sebbene il trono gli fosse stato contestato da Andrea III Arpad (ultimo di questa dinastia estinta, da non confondere con un altro Andrea. duca di Schiavonia (che si faceva passare per fratello di Maria), col quale in pratica aveva condiviso il regno.

Il secondo figlio di Carlo II re di Napoli, Ludovico, si faceva frate presso il convento di san Lorenzo di Napoli, per cui, come erede del regno e designato principe di Salerno, gli succedeva il terzogenito Roberto.

Seguivano gli altri fratelli: il quartogenito Filippo, principe di Taranto e di Acaja, primo di questa casata (**);  il quintogenito Raimondo-Berengario, conte di Andria; il sestogenito, Giovanni, morto giovane; il settimogenito Tristano (così chiamato perché nato durante la prigionia del padre quando era principe di Salerno); altro Giovanni, l’ottavogenito, conte di Gravina e duca di Durazzo, fondatore di quest’ultima casata (***), che aveva sposato Agnese, figlia di Arcimboldo conte di Perigord, da cui era disceso Carlo III di Durazzo; ultimo nato di Carlo II, era infine, Pietro, conte di Gravina, oltre alle femmine (****).

La successione del terzogenito Roberto il Saggio (1278-1343) come re di Napoli, aveva avuto dei connotati oscuri, a causa del dubbio insinuato dai pretendenti, sforniti di qualsiasi prova, sulla circostanza che quando moriva il primogenito, fosse stato il secondogenito a eliminarlo, per appropriarsi del regno.

Nel caso di Roberto, prima di lui vi erano due fratelli, il primo e secondogenito, dei quali il primo, sebbene fosse morto con la moglie di peste (v. n.*), si era ugualmente insinuato che fosse stato avvelenato; mentre per Ludovico, che si era dato volontariamente alla vita religiosa, si era insinuato che fosse stato costretto ad abbracciare la vita religiosa!

E così, si era verificato che l’unico figlio di Roberto, Carlo, duca di Calabria, dopo aver sposato Caterina figlia dell’arciduca d’Austria, che moriva senza avergli dato figli; in seconde nozze sposava Maria di Valois, che gli dava un maschio, al quale era dato il nome di Carlo Martello, il quale moriva dopo otto giorni.

Il saggio Roberto, non avendo altri eredi maschi a cui poter far ricorso, rassegnato, pronunciava la frase “cecidit corona capitis mei” (cade la corona dal mio capo); gli rimanevano solo le due nipoti, Giovanna e Maria per cui redigeva il menzionato testamento, in cui, per evitare la lotta tra gli aventi causa, designava a succedergli la primogenita Giovanna, mentre Maria costituiva la riserva; ma la lotta per togliere il trono a Giovanna e appropriarsene e approfittare di Maria, si scatenava ugualmente, e le armi che dovevano servire per essere adoperate in guerra e mantenere il regno in pace, furono  rivolte contro gli stessi principi, in lotta tra di loro.

Di Costanzo ritiene che il regno potesse esser dato a uno dei reali, che erano molti, che fosse abile alla successione, dandogli poi la piccola Giovanna in moglie; ma il re Roberto aveva preferito, per scrupolo di coscienza o per altra ragione, rivolgersi al nipote Carlo, re d’Ungheria  al quale aveva mandato un’ambasceria e la proposta fu accettata per  Andrea, secondogenito che lo avrebbe egli stesso accompagnato a Napoli, ciò che ebbe luogo, dopo essersi imbarcato nel Friuli, giungendo alla fine di luglio 1333 a Vasto.

 

 

 

 

*) Carlo Martello, Ludovico, Roberto, Filippo, Raimondo, Berengario, Giovanni, Tristano, altro Giovanni, Pietro, Maria, Bianca, Margarita, Beatrice Eleonora.

Carlo Martello aveva sposato (1285) Clemenza d’Asburgo figlia dell’imperatore Rodolfo I e di Giovanna d’Hoenberg; come detto moriva di peste con la moglie e furono sepolti nel Duomo di Napoli; oltre a Caroberto, aveva avuto la figlia Clemenza (primogenita) che aveva sposato il re Luigi Hutin (il Garbuglio) di Francia e Beatrice che aveva sposato Giovanni II delfino del Viennese (di Francia).

**) Le tre figlie femmine avute da Ludovico  (un maschio, Carlo Martello era morto in giovane età) erano: Edwige, che sposava Ladislao V Jagellone  re di Polonia e Maria regina d’Ugheria, sotto la reggenza della madre Elisabetta, ma gli ungheresi chiamarono Carlo III di Durazzo re di Napoli, che fu l’ultimo del ramo angioino di Durazzo a regnare (era figlio di Ludovico, conte di Gravina, figlio di Giovanni, fratello di re Roberto e Margherita, figlia Roberto Sanseverino, conte di Corigliano).

***) I figli di Filippo, quarto figlio di Carlo II, erano: Raimondo-Berengario conte di Andria, Gian-Tristano, religioso, Giovanni conte di Gravina e duca di Durazzo, Pietro conte di Eboli; le femmine, Maria moglie di Sancio d’Aragona e Maiorca; Bianca, moglie di Giacomo II d’Aragona, Margherita, moglie di Carlo di Valois; Beatrice in prime nozze sposava Azzo VIII d’Este e in seconde nozze, il conte Bernardo del Balzo di Montescaglioso (i del Balzo acquisiscono successivamente il feudo comitale di Andria, che diveniva ducato quando Francesco sposava Margherita, sorella di Filippo, che in prime nozze aveva sposato Edoardo di Scozia (contro il parere di Filippo), da cui nasceva Giovanni del Balzo, che sposava Agnese di Durazzo; Eleonora diveniva moglie del re di Trinacria, Federico d’Aragona.

****) Come femmine, Carlo II aveva avuto Clemenzia che aveva sposato il conte di Valois, fratello del re di Francia; Bianca diveniva moglie del re Giacomo d’Aragona; Eleonora moglie di Federico re di Sicilia; Maria, moglie del re di Majorca; Beatrice, moglie di Azzo d’Este, marchese di Ferrara e alla morte di questo, di Beltramo del Balzo, conte di Montescaglioso.         

 

 

 

IL RE ROBERTO

NELLA SUA SAGGEZZA

NON AVEVA PREVISTO

LE DIFFICOLTA’

 DEL MATRIMONIO

 TRA DUE BAMBINI

 

 

 

I

l re Roberto (1276-1343), dalla prima moglie Violante, sorella di Jaime d’Aragona re di Maiorca,  aveva avuto due figli, Carlo e Ludovico; di questi, il secondo moriva fanciullo e gli moriva anche la moglie (1302); in seconde nozze sposava Sancia d’Aragona, cugina di Violante, che non gli dava figli e gli sopravviveva.

Tutte le speranze per una successione erano riversate su Carlo, duca di Calabria, detto l’Illustre, il quale seguiva il padre nell’attività di governo e dando prova di averne le capacità, aveva suscitato nel padre grandi aspettative (i monarchi erano ossessionati dalla voglia di mantenere il trono attraverso i figli maschi! ndr.) e spinto dal padre  aveva avuto tre matrimoni, nella speranza di avere discendenti maschi.

La prima era stata Caterina, figlia del duca d’Austria; la seconda, Maria Ottava, figlia di Carlo di Valois (fratello del re di Francia) e la terza (*), era stata  Matilde figlia del conte di San Paolo, che gli dava due figlie femmine, Giovanna (nata il 1326) e Maria (nata il 1329); mentre per Summonte ed altri, le due figlie provenivano dalla seconda moglie, Valois; noi seguiamo la maggioranza, visto che non si hanno notizie su questo conte di san Paolo; su di esse, Roberto  doveva fare affidamento per la successione.

“Avvenne (scrive M. Villani in “Cronica”), che il senno di tanto principe, accecato dal proprio amore della carne, morendo, lasciò la giovane regina ricca di grande tesoro e governatore del suo reame”.

Il re Roberto detto il Saggio, pur prevedendo i contrasti che sarebbero sorti alla sua morte sulla successione al regno, per testamento predisponeva che la nipote Giovanna avrebbe potuto ereditare il regno al compimento del quindicesimo anno di età e per conferma, aveva fatto giurare la nobiltà; e aveva pensato anche al matrimonio della bambina; ma, (nella sua saggezza!) non aveva potuto prevedere che cosa sarebbe successo facendo sposare due bambini di sette anni!

Il bambino che le era stato destinato, era il principe Andrea, detto Andreasso, figlio di Caroberto (Carlo II) d’Ungheria e Dalmazia, a sua volta, figlio ed erede di Carlo Martello, primogenito di re Roberto e fratello minore di Ludovico-Luigi (detto il Grande), che succederà al padre e regnerà per quarant’anni.

Destinato così Andrea da re Roberto a sposare Giovanna, era stato chiamato a Napoli ed era stato accompagnato (1333) dal padre, che, venendo da un paese ancora semibarbaro, era rimasto colpito,  non solo dalla pompa dei principi di sangue reale e dallo splendore e magnificenza di tutti i nobili e signori, e dalla opulenza del regno.

Il matrimonio fu celebrato con grandi festeggiamenti a settembre, al giungere della dispensa del papa (e il re Roberto aveva voluto che fosse anche consumato!), con la partecipazione di tutti gli ambasciatori dei principi e repubbliche d’Italia; il re Carlo II, era rimasto anche stupefatto dalla magnificenza degli abiti dei principi reali e dei nobili del regno, con i servitori del duca di Calabria che indossavano la sua divisa, delle feste, giostre, tornei ed esercizi militari ai quali aveva partecipato;  giunta la fine di ottobre, il re se ne tornava nel suo regno, soddisfatto per il futuro del figlio .

Andrea era stato affidato alle cure di fra’ Roberto e del gruppo di nobili ungheresi che lo avevano accompagnato, mentre Giovanna era affidata alle cure di Filippa che seppur dotata di acutezza di ingegno, non aveva nessun insegnamento da trasmettere a chi sarebbe divenuta la futura regina. Le cose continuarono a questo modo anche dopo il matrimonio con Andrea, quando Filippa, aveva agevolato i rapporti intimi di Giovanna con il figlio Roberto, giovanetto di bell’aspetto e dal fisico prestante.

Per Andrea, nominato nel frattempo duca di Calabria, il re Roberto aveva disposto infine che dovesse essere coronato quando avesse raggiunto l’età di ventidue anni; per ogni altra evenienza, in caso di morte prematura, a Giovanna, sarebbe subentrata la sorella Maria.     

Quando il re Roberto morì (1343), i due genitori di Giovanna, principi Carlo e Maria, erano premorti, il primo il 1328, la seconda il 1332, mentre la seconda figlia Maria, nasceva postuma (1329).

La convivenza tra i due bambini, invece che amalgamare i loro sentimenti, aveva inaspriti i loro caratteri. Andrea diventerà di carattere acre e burbero, incostante negli affetti, a cui piaceva la vita all’aria aperta e la caccia, senza altro desiderio che quello di raggiungere i fasti reali e l’autorità.

Di animo astioso, seguiva i grossolani costumi degli ungheresi, dai quali era circondato e si lasciava guidare; per di più aveva un pessimo precettore (maestro di lettere e di creanze), il frate tedesco, fra’ Roberto, qualificato da Petrarca “aspide uscito dalla tomba di re Roberto”.

Sebbene Andrea apparisse sgradevole per i suoi modi primitivi, re Roberto sperava che a Napoli, con l'opera di precettori, si fosse potuto raffinare nelle lettere, nella civiltà e nelle virtù. Ma, quando si accorse che Andrea non aveva perso niente dei costumi barbari ungheresi, si pentiva della scelta che aveva fatto per Giovanna che, a dodici anni superava per intelletto le sue coetanee ed ora si trovava legata a un ragazzo così da poco.

Egli quindi, ritenendo di poter rimediare, aveva convocato il Parlamento generale con tutti i baroni del regno, facendoli giurare su “Giovanna come regina” e istituendo, solo per Giovanna, e dopo la sua morte, un Consiglio di reggenza, mentre per il marito disponeva gli fosse riconosciuto il titolo di “consorte della regina”, fino all’età di ventidue anni, quando avrebbe assunto anch’egli il titolo di re.

Alla morte di Roberto, fra’ Roberto, con astuzia, sostituiva poco a poco con gli ungheresi, tutti i consiglieri che erano stati nominati dal re Roberto per amministrare ogni cosa a loro volontà e la regina che aveva solo diciassette anni, era regina solo di nome, ma in effetti, prigioniera degli ungheresi e quel che più l’affliggeva, era la doppiagine del marito che, non meno di lei, era soggetto agli ungheresi .

 

 

 

 *) Secondo l’Anonimo, Historia del regno di Napoli, 1769, il più prossimo agli avvenimenti.

 

 

 

 

GIOVANNA

SPOSA  ANDREA

D’UNGHERIA E DOPO

IL SUO ASSASSINIO

E’ CONTESA DAI DUE

FRATELLI DI TARANTO

 

 

 

 

C

elebrate le esequie di re Roberto (1343), Giovanna e Andrea furono acclamati, ma il governo era già nelle mani di fra’ Roberto il quale, poco a poco, come abbiamo visto, aveva sostituito tutti i consiglieri più fidati del defunto re, mentre Giovanna,  che aveva appena diciassette anni, da una parte si trovava ad essere prigioniera degli ungheresi, dall’altra, era afflitta dalla dappocaggine di Andrea, il quale, senza attenersi alle disposizioni del re Roberto per la sua incoronazione, era incoronato con Giovanna, come consorte.

Il papa Clemente VI aveva infatti mandato il cardinale Americo, per incoronarli solennemente, presente tutta la nobiltà del regno, e Giovanna, come regina di Sicilia e Gerusalemme, con gli altri titoli (*), giurava l’omaggio alla Chiesa, obbligandosi al versamento del censo.

I principi reali, primo fra gli altri, il principe di Taranto, che voleva dirigere lui il regno, vedendo come stavano andando le cose, decisero di tornarsene ciascuno nelle proprie terre, ciò che aveva fatto sorgere in fra’ Roberto il sospetto che un giorno sarebbe precipitato dalla grandezza in cui si trovava, per cui aveva avuto l’idea di chiamare dall’Ungheria, Ladislao, fratello di Andrea, al quale suggeriva di prendere in moglie la sorella di Giovanna, Maria, di cui era innamorato non corrisposto, il duca  Carlo di Durazzo, primogenito del principe di Acaia.

Il duca avendo saputo dei maneggi di fra’ Roberto, procuratasi la dispensa papale si recava a rapirla in Castelnuovo e la sposava  nel cortile del suo palazzo (vi è chi dice contro la sua volontà).

Nello stesso tempo Ludovico, conte di Gravina, fratello secondogenito del duca, prendeva per moglie Margherita, figlia di Roberto Sanseverino, conte di Corigliano, dal quale nasceva il futuro Carlo III. 

L’idea della uccisione di Andrea era maturata in quanto Ludovico d’Ungheria, non potendo sopportare che il fratello non avesse titolo che pareggiasse quello di Giovanna, su suggerimento di fra’ Roberto, si era rivolto al papa, perché il fratello fosse incoronato re di Gerusalemme e Sicilia, contro le ultime volontà volute da re Roberto. Ciò che i congiurati (**) non volevano accadesse; per questo essi presero la decisione di assassinarlo e decisero di farlo al più presto possibile, prima che arrivasse l’ordine del papa di incoronarlo.

Ma secondo gli storici maschilisti, che ritenevano Giovanna “sfrenata nelle opere veneree”, la causa della uccisione di Andrea sarebbe stata dovuta alla circostanza che “Andrea non riuscisse a soddisfarla sufficientemente”!

I congiurati (***) avevano ritenuto opportuno assassinare Andrea ad Aversa e lo avevano invitato a una partita di caccia con cani e falconi, accettata da Andrea; era la sera del diciotto settembre 1345; il re era nella camera della moglie e uno dei suoi camerieri lo aveva chiamato, da parte di fra’ Roberto, per comunicazioni urgenti da Napoli; il re  uscito dalla camera, attraversava una loggia con balconata e quando si trovava in mezzo alla loggia, preso per la folta chioma bionda gli fu messo il cappio al collo e facendolo cadere giù dalla loggia, rimaneva impiccato; ciò avvenne mentre gli ungheresi che lo sorvegliavano erano sprofondati nel sonno causato dal vino.

Questo modo usato per uccidere Andrea, come spiegato nella “Cronaca di Gravina”, era dovuta al fatto che la madre di Andrea gli aveva dato un anello magico che (si riteneva) impedisse poter essere ucciso con il veleno o con il ferro.

Tommaso Costo (1545 c.ca-1645 c.ca), uno degli storici colpevolisti di Giovanna, che  riteneva Giovanna, sessualmente insoddisfatta, si esprimeva in questi termini: “Fu così che Andrea, dopo tre anni di permanenza nel regno, trovandosi con Giovanna ad Aversa, la regina mandò a chiamarlo per importanti comunicazioni  e mentre Andrea si trovava vicino a un poggiolo, fu preso e postogli il cordone attorno al collo, fu deliberatamente spinto dal poggiolo e impiccato per commissione della regina. La causa, per molti era stata perché sebbene molto giovane, non fosse sufficiente per le opere veneree, come lo sfrenato appetito della regina avrebbe voluto”.

E lo storico aggiungeva: “Si narra ancora oggi, per Napoli, che la regina, facendo un giorno un cordone d’oro assai grosso, Andreasso, come sogliono i mariti, le aveva chiesto per che cosa facesse quel cordone così grosso e lei, sorridendo rispose che lo faceva per impiccarlo”; Costo aggiungeva: “che Giovanna teneva Andreasso in tale disprezzo che non temeva di dirgli simili parole delle quali Andreasso poco se ne curava; ma vi fu il seguito del cordone, col quale, Andreasso finì la sua vita”.

La città era rimasta attonita; gli ungheresi avevano perso l’ardire, dubitando di essere tagliati a pezzi se perseveravano nel governo; il corpo del re morto era stato portato in chiesa, dove rimase senza essere sepolto.  

Dal comportamento di Giovanna e dal successivo matrimonio (20 agosto 1347) con Luigi di Taranto, considerato bellissimo giovane (ma era di bassa statura) Costo, richiamava una lettera scritta da Luigi, con cui relativamente alle scuse avanzate da Giovanna sulla sua estraneità alla uccisione di Andrea, le faceva presente (in maniera non sufficientemente chiara): “La disordinata vita precedente, la ritenzione del dominio nel regno, la vendetta non fatta, l’altro marito tolto e le seguenti scuse sul marito, sono prove che, della morte di tuo marito sei stata partecipe e consorte”.

Luigi aveva preso dalla madre Caterina di Curtenay (****) l’ambizione, non l’intelligenza, e nel periodo degli screzi, derivanti dal rifiuto di Giovanna di concedergli il potere, Luigi le rivolgeva insulti, frasi volgari e le rinfacciava di essere di facili costumi e di tradirlo con Enrico Caracciolo-Rosso (v. sotto), siniscalco della Corte, giovanetto come la regina, bello e di corpo prestante (come scriveva Matteo Camera*****) e di questa passione se ne parlava a Corte.

Caterina di Courtenay congiurava e tramava contro la sua antagonista Agnese di Perigord (madre di Carlo III), perché ciascuna di esse voleva che Giovanna sposasse il loro figlio; per Caterina che, senza tener conto del rapporto che lei aveva con Luigi, mirava al matrimonio del suo primogenito, Roberto, anch’egli giovane e bello, e lo aveva mandato a    Castelnuovo durante un’assenza di Luigi ....  e Giovanna lo aveva accolto! 

Ed ecco sorgere grandi scandali, scriveva il Cronista di Gravina, in quanto Giovanna, (cedendo alla debolezza della sua sensualità ndr.) aveva accettato la presenza di Roberto. Ma, vi era anche il fratello Luigi, innamorato di Giovanna, il quale un giorno che Roberto era uscito dal Castello, vi entrava e fatto alzare il ponte levatoio, dava ordine di non fare entrare nessuno; e quando giunse Roberto gli fu negato l’ingresso e gli fu di necessità andarsene al proprio ospizio. Oh quanto misero regno è questo, ridotto ad essere governato da una donna e da fanciulli. Mentre il duca Luigi dimorava nel Castello con la regina, il fratello, risentito  per il trattamento subito, preso da furore, mandò suoi nunzi al re d’Ungheria scrivendogli di venire nel regno e con il suo aiuto e dei suoi seguaci, lo soggiogasse e  prendesse i traditori di suo fratello.

 

 

 

    *) Duchessa di Puglia, principessa di Salerno, di Capua, di Provenza, di Folcaquier contessa di Piemonte.

**) I congiurati, secondo  Camera,  erano i seguenti: Gasso di Denicy conte di Terlizzi, capitano della città di Napoli Roberto de Cabanni, conte di Eboli,Raimondo de Catania, maggiordomo della regina,Carlo di Gambatesa, conte di Montorio; Carlo d' Artois, conte di S. Agata e Monteodorisio con suo figlio Bertrando;  Giovanni e Restaino di Lagonessa, Nicola di Melissano, cameriere della regina, Corrado di Catanzaro e Corrado d'Umfredo di Montefusco; Francesco de Luco, paggio, Giovanni e Ligorio Caracciolo, militi napoletani ed altri; costoro erano spalleggiati (come dice Camera) dalla imperatrice Caterina, da Filippa e dalla nipote Sancia,  non esclusa la stessa regina.  Come si vede il duca Carlo di Durazzo in effetti non era tra i congiurati.

***) Secondo Gravina era stato Bertrando figlio di Carlo d’Artois e Tommaso Pace, figlio del ciambellano, che faceva parte del seguito di Andrea, ad ucciderlo per ordine di Sancia e della zia maestressa (Filippa) e altri; costoro, su suggerimento del duca Carlo di Durazzo, furono torturati e condannati dal maestro Giustiziere Bertrando de’ Bausi e del Notaio  Nicolò e, diversamente dalla tortura delle tenaglie, Gravina aveva scritto che erano stati legati alle code dei cavalli e  trascinati fino alle forche dove fu eseguita la condanna.

Secondo Crivelli, Giovanna aveva dato incarico al conte Ugo del Balzo di ricercare e punire i rei: il conte  aveva accertato che gli strangolatori di Andrea erano stati Carlo Artus e Bertrando suo figlio, Corrado di Catanzaro e Corrado Umfredo, che le guardie avevano fatto fuggire e l’imperatrice aveva dato loro ricovero a Costantinopoli e conveniva scriverle del dovere di consegnarli, per eseguire la condanna a Napoli. 

****) Luigi era figlio di Filippo di Taranto che in prime nozze, aveva sposato Caterina d’Epiro, detta Ithaar o Thomar, figlia di Niceforo Ducas-Comneno, despota di Morea; era stata colta dal marito mentre lo tradiva con Bartolomeo Siginulfo, conte di Caserta, ucciso all’istante, mentre lei era ripudiata; ma  poco tempo dopo Ithaar moriva avvelenata (1308). Con la sua morte, Filippo ereditava molte città della Morea, che Thomar aveva portato in dote. Caterina, cosiddetta imperatrice, in quanto il marito era chiamato “imperatore”, perché abitava nel palazzo presso il Seggio di Montagna che per antica tradizione e per le insegne era detto palazzo dell’imperatore.

In seconde nozze Filippo di Taranto, sposava Caterina  de Courtenay (1301-1346), figlia di Filippo di Courtenay (a sua volta figlio di Baldovino II); di spirito diabolico, principale fomentatrice della uccisione di Andrea (come la riteneva Matteo Camera),  studiava il modo di dividere l'unione di Giovanna con la morte di  Andrea e come una vipera desiderava far sposare Giovanna a uno dei suoi figli, la qual cosa (scriveva Dominici de Gravina in Chronicon) ottenne dal demonio, da cui seguì la distruzione del regno. Da Caterina aveva avuto tre figli maschi e quattro femmine; i maschi  Roberto, suo successore nel principato di Taranto e nel titolo imperiale; Luigi, che aveva sposato Giovanna I, e Filippo conte della Cerra.

Le figlie femmine di Caterina II  erano Margherita moglie di re Odoardo di Scozia e poi contro la volontà del fratello, di Francesco del Balzo, conte di Montescaglioso, che per effetto di questo  matrimonio portò la Casata nell’ambito della Casa Reale; in questa occasione gli fu riconosciuto il titolo di duca d’Andria che fino a quel momento era stato usato per gli eredi al trono;  il figlio, Giacomo del Balzo, aveva  sposato Agnese di Durazzo.

L’antagonista di Caterina, era Agnese di Perigord (madre di Carlo III)  che si era ammalata (1345) e Caterina aveva predisposto un piano diabolico per vendicarsi del matrimonio del figlio Carlo con Maria. Agnese era assistita da Sancia (nipote di Filippa) e non si riusciva a capire quale fosse la  sua malattia; per individuarla il medico aveva ritenuto di esaminare le urine; Sancia, convinta da Caterina, sostituiva le urine di Agnese con le sue, che era incinta; il medico attribuiva quindi l’indisposizione alla gravidanza e lo riferiva ai figli; la notizia turbava il figlio Carlo e si diffondeva per la città; i nobili e le dame ne erano sdegnati e nessuno più prestava fede ad Agnese che cercava in tutti i modi e inutilmente,  di discolparsi; a questo punto si era pensato di eliminarla e vi provvedeva Sancia che l’avvelenava con un clistere.

 *****) Matteo Camera, Giovanna I regina di Napoli e Carlo III di Durazzo, 1889.

 

 

 

IL GIUDIZIO

DEGLI STORICI

MASCHILISTI SULLE

DONNE EMERGENTI

 

 

 

C

on l’accesso di Giovanna al trono ...  apriti cielo! ... si era aperta la “gazarre”  di accuse che erano le stesse che abbiamo visto in Isabella di Baviera (v. in Art,), relativamente alla imbecillità  del sesso!

Tutti gli storici, cominciando da Guicciardini e altri, gagliardi maschilisti, erano dell’idea che le donne non fossero atte a regnare a causa dell’imbecillità del sesso; e proprio Guicciardini in riferimento alla prima Giovanna attribuiva, oltre all’imbecillità del sesso, “non meno dell’infamia dei costumi”, e alla seconda Giovanna, “non differente né d’impudenza, né di lascivia di costumi, perché metteva il Regno nelle mani delle persone nelle quali impudicamente metteva il suo corpo” (Pandolfello!) .

Ma contro le donne in genere, cominciando dal libro considerato sacro, unanimemente riconosciuto maschilista, nell’Ecclesiastico, XXVI, fa riferimento a: “L’impudicizia della femmina si riconosce al levar degli occhi e al suo sguardare”. e XLII: “In mezzo a donne non far dimora, ché dai vestimenti esce la tignola e dalla donna la malvagità dell’uomo”.

Poi nel medioevo si scatenarono i santi, come san Bernardo, che le commiserava dicendo, “povere donne, idiote e senza cultura”e, quando fioriva la veneziana francesizzata, Cristine de Pizan, per sua fortuna era stata ignorata; e il peggio del peggio era arrivato con  Oddone di Cluny che con disgusto così si esprimeva: “mentre non sopportiamo di toccare uno sputo o un escremento nemmeno con la punta delle dita, come possiamo desiderare di abbracciare questo sacco di escrementi?”

Nell’800, con Matteo Camera (1807-1891) la situazione migliorava alquanto e su Giovanna  I, lo storico così si esprimeva: “Per quanto giudiziosa e di sentimenti religiosi, altrettanto la sua condotta andò vituperata dalla posterità e fu una delle principesse più esposte alla maldicenza. La storia le reca biasimo di complicità nel regicidio di Andrea, suo primo marito. E il  Muratori aveva scritto: “Esser più facile cosa lavare e imbiancare il volto di un moro, di quello che sostenere, con buon effetto, la causa di Giovanna di Napoli. Nulladimeno, molti gravi autori, e fra questi i due giureconsulti Baldo e Angelo da Perugia, e dopo, Tristano Caracciolo, il Di Costanzo, Giannone ed altri, hanno procurato di difenderla dalla taccia di complicità nel viricidio”.

Le seducenti fattezze di Giovanna nello splendore della vita, l’animo suo gentile e cortese, l’esaltazione cavalleresca del tempo, i costumi che rendevano graditi anche alle donne più virtuose e schive gli omaggi dei cortigiani e le poetiche lodi dei trovatori: un tal complesso di cose la fecero facilmente cadere in riprovevoli corrispondenze amorose che ben presto furono sussurrate all'orecchio dello sposo Andrea; il che diede colore di verosimiglianza alle voci che i suoi nemici sparsero su di lei (M. Camera).

D’altronde, non insensibile ai piaceri e alle vanità soleva di frequente con Andrea prendersi gusto per le pompe, per gli spettacoli, per le cavalcate, per la caccia e per le giostre; e Camera citando il cronista Domenico Gravina aggiunge: “Hi juvenes dux et regina juvenilibus ludis et solutiis insistentes. atque regales splendidibus vestibus adornati, alteratim produentes, alterim equitantes per splendidam urbem neapolitanam, de nullo curantes incedant”: I due giovani, duca e regina, si dedicavano a giochi giovanili, adornati di regali e splendide vesti, alternando passeggiate a cavalcate per la città napoletana, di nulla curandosi nel loro incedere.

Giovanna I, si esprimeva con grazia e squisitezza in latino e in provenzale; trattando con letterati e artisti, parlava e scriveva meglio di qualunque donna del suo tempo; in fondo era stata una buona regina, nonostante tutte le vicissitudini che aveva dovuto superare; aveva fatto ingrandire la reggia di Castelnuovo, aveva fatto eseguire lavori al porto ed altro; la sua debolezza derivava dalla sua sensualità: dai vari rapporti che aveva avuto con gli uomini, si può dire che non resisteva al fascino maschile, ciò che le aveva creato non pochi problemi nel governo del regno.

Un verso poetico di Collenuccio, che Costo qualificava “malizioso”, diceva (di Giovanna  I):  Non regina, ma rovina del regno: e riferiva di un giureconsulto napoletano che l’aveva chiamata “rovina del regno”, aggiungendo questi versi: “Regna regunt vulvae, gens tota clamat simul ohh; interitus regni est a muliere regi”: -  Quando regna la vulva, la gente insieme esclama ohh; la distruzione di un regno passa  da una donna a un re.

E per Giovanna II, che “Ultima Durazzi fiet distructio regni”: L’ultima di Durazzo sarà la rovina del regno.  

 

 

 

FILIPPA LA CATANESE

E I FAMILIARI

PERDONO LA

LA VITA E LE RICCHEZZE

 

 

 

F

ilippa, detta la Catanese, moglie di un pescatore, era una lavandaia di bell’aspetto che la duchessa Violante d’Aragona, (sorella del re Giacomo-Jaime di Sicilia), prima moglie di Roberto, aveva assunto quando il marito era ancora duca di Calabria e si era recato in Sicilia per combattere contro Federico dì Aragona e lei era  incinta del primo figlio, Ludovico.

Questo primo figlio dato a balia a Filippa, era morto bambino e i principi, l’avevano tenuta  con loro e l’avevano portata a Napoli (non si esclude che Roberto fosse stato colto dalla sua bellezza); nel frattempo Filippa era rimasta vedova e Roberto, divenuto re, la faceva maritare con il moro Raimondo de’ Cabani  (o Cabanni).

Questo moro era stato acquistato da Raimondo de’ Cabani, un moro (non sappiamo quale dei due possa essere quello che si intravede nel ritratto di Giovanna all’inizio dell’articolo) che come siniscalco, sovrintendeva alle cucine reali, a cui, le maniere del giovinetto erano così tanto piaciute, che lo fece soprastante della cucina reale e facendolo battezzare, gli  concesse il proprio nome e il proprio stemma.

Il giovanetto stando in cucina si era istruito così bene nell’arte, da ottenere oltre ai favori del duca, grandi guadagni investiti nell’acquisto di beni; dal servizio in cucina, egli passava a quello di camera e per il suo senno e fortuna, si innalzava a grandi ricchezze e, Carlo II, lo nominava cavaliere e vice siniscalco.

Da Filippa, aveva avuto tre figli maschi, Carlo, Roberto e Pierotto; il primo  riceveva il titolo di barone di Tricase e di Lizzano in Terra d’Otranto e alla sua morte il titolo passava a Roberto il quale sposava Siligaida Filomarini, dalla quale aveva due figli, Caterina, moglie di Nicolò d’Aquino, signore di Grottaminarda e Francesco, deceduto il 1386; il terzo, Pierotto, diveniva vescovo.

Dopo la morte di Violante, Filippa entrava anche nelle grazie della seconda moglie di Roberto, Sancia, servendola nei lavori e nei ricami e poco alla volta raggiungeva il livello di maggior-donna della corte. Filippa oltre ad aver favorito gli amoreggiamenti di Giovanna durante il matrimonio con Andrea, con il figlio Roberto, aveva favorito anche quelli con Bertrando d'Artois, che giunsero all'orecchio di Andrea, il quale privo di sovranità, dovette limitarsi a ingoiare  l'affronto.

Filippa dal figlio Roberto aveva avuto (secondo altri, da Pierotto), una nipote, Sancia (dal nome della seconda moglie di re Roberto), che fu maritata al conte di Morcone.   

Raimondo de’ Cabani, barone di Tricase e di Lizzano, otteneva il titolo di gran siniscalco del regno di Sicilia e della casa reale e la moglie Filippa con la nipote Sancia, avevano avuto l’incarico, la prima, di maestressa di Giovanna, la seconda, di compagna di Maria.

Giovanna la teneva in tanta considerazione, da nominarla contessa di Montorio, suscitando scandalo tra la nobiltà: mentre Roberto,  essendo di bell’aspetto (non siamo informati sul colore della sua pelle!), era in fama di godere, durante il matrimonio con Andrea, l’amore della regina.

Dopo la morte di Andrea, era stato istituito un Tribunale per investigare sui suoi assassini, a capo del quale  era stato nominato il giustiziere Bertrando (per altri, Ugo) del Balzo, conte di Montescaglioso (*), il quale li mise tutti sotto processo e, ottenute sotto tortura le loro deposizioni, con cui si erano dichiarati colpevoli, furono tutti condannati alla decapitazione, previo smembramento (ma non erano costoro i responsabili! ndr.).

Prima della esecuzione, verso il mare, nella parte che guarda la città, erano stati drizzati dei pali con pungenti chiodi e i colpevoli erano stati tormentati per la confessione, al cospetto del popolo; ma la distanza era tale che la loro deposizione non si poteva sentire; si ritenne comunque confermata la loro partecipazione alla uccisione di Andrea.

Dopo alcuni giorni tutti e tre, ignudi,  furono legati su tre carri e portati per la città, mentre erano smembrati dai carnefici, pezzo per pezzo, con tenaglie infuocate fino a che giunsero in piazza del mercato dove era stato preparato il fuoco; prima che la vecchia Filippa vi giungesse, rimase senza spirito, per i crudeli tormenti del carnefice; il cuore e le interiora furono estratte e appese alla porta Capuana dove per lungo tempo diedero testimonianza della fiera crudeltà e il resto del corpo fu bruciato. Roberto tolto dal carro fu legato a un palo e miseramente bruciato; solo  Sancia riuscì a salvarsi dal rogo e fu portata in carcere perché incinta” e l’esecuzione rinviata  fino al parto e tenuta in carcere.

Ma ciò non bastò agli astanti, che i corpi mezzi arrostiti furono tolti dalle fiamme e furono tratti i cuori che da alcuni, a guisa di sacrificio furono mangiati e i corpi, con gli uncini furono trascinati per le cloache e per i posti più vili e sozzi della città e ivi lasciati insepolti.

Le due esecuzioni non eseguite, erano state quelle di Filippa, morta a causa delle atroci torture subite prima di giungere al patibolo e di Sancia perché era incinta; tutte le loro ricchezze erano infine confiscate.

Per fugare ogni sospetto, Giovanna aveva pubblicato un editto col quale dichiarava di perdonare ogni offesa alla sua persona, da coloro che avevano assalito il castello dove abitava, ma, come scrive l’Anonimo (*), “tra la gente correva il sospetto che Giovanna fosse stata partecipe  dell’assassinio di Andrea e quest’atmosfera di sospetto determinò  la loro decisione a recarsi ad Avignone”. 

 

 

 

*) Bertrando del Balzo aveva per moglie Beatrice d’Angiò, figlia del re Carlo II.

 

 

 

LA GRAN TEMPESTA

DI NAPOLI

DESCRITTA DAL PETRARCA

 

 

 

 

A

  Napoli(1343), si era verificata una gran tempesta, denominata tempesta di Napoli, di cui parla anche Petrarca, in una sua lettera al cardinale Giovanni Colonna, che si era estesa dal Tirreno all’Adriatico, prevista per il 25 novembre, si era verificata il 24 e aveva spaventato tanto la popolazione, che le donne a piedi nudi, con i capelli sparsi e i bambini in braccio si erano recate nelle chiese piangendo e  chiedendo misericordia.

Il Petrarca si trovava a Napoli, nominato dalla regina Giovanna suo cappellano, e alloggiava nel monastero detto di santa Chiara, nei pressi del monastero di san Martino.

In quella notte, egli dice, il mare si era ingrossato e per tutta la città si sentiva il suo fremito, e si sentivano terremoti che si temeva che tutta la città rovinasse; i frati si erano recati in chiesa a  cantare il mattutino, sbigottiti da sì atroce tempesta portando in processione per la chiesa, con le torce accese, la croce con le reliquie dei santi, piangendo e gridando misericordia e prostrati tutti a terra, con voci piangenti e dolorose, invocavano la pietà divina, aspettando che la chiesa cadesse sulle loro teste, tanto era l’orrore della notte con i venti, i tuoni, i terremoti, lo strepito spaventoso del mare e le voci di tutto il popolo; venuta poi l’aurora quei monaci con gran pianto, cominciarono a celebrar le messe e fatto giorno cominciò il grido del popolo nella parte alta della città mentre cresceva il rumore verso la marina, per scorgersi in mezzo al porto molti uomini sparsi per il mare che si sforzavano di raggiungere la riva, respinti dalla violenza delle onde e si vedeva quel lido pieno di persone sommerse che stavano per rendere l’anima, chi con la testa e chi con le braccia rotte, ad altri che gli uscivano le viscere; né il grido degli uomini e delle donne che abitavano nelle case vicino al mare era meno spaventevole del fremito e dove il giorno prima si era passeggiato,, era stato coperto dal mare più spaventoso di Scilla e Cariddi.

Si levò poi un nuovo rumore  e il terreno sotto i piedi di quella gran moltitudine, appressata a vedere il gran spettacolo, cominciava ad abbassarsi e la moltitudine fuggendo si ritirò verso la parte alta della città, cosa orrenda agli occhi mortali vedere il Cielo a quel modo irato, il mare implacabile e mille moti di onde nere, azzurre, come sogliono nelle tempeste, ma bianchissime, si vedevano venire dall’isola di Capri.

La regina Giovanna, a piedi nudi con le altre donne, andava visitando le chiese dedicate alla Vergine madre di Dio.

Nel porto non vi fu nave che avesse potuto resistere e tre galere giunte da Cipro, che avevano solcato tanti mari, si videro sommergere senza che si salvasse un uomo; similmente le altre navi all’ancora, percuotendosi tra di loro, si fracassarono con morte di tutti i marinai, solo una dov’erano al remo quattrocento malfattori, destinata alla guerra in Sicilia, si salvò, avendo sopportato l’empito del mare e avvicinandosi la notte venne a rasserenarsi il Cielo e placarsi l’ira del mare; e così vennero a salvarsi i più cattivi per l’alto giudizio di Dio, perché facessero penitenza dei loro misfatti. Ciò avvenne il martedì, giorno di santa Caterina e molti edifici nelle vicinanze del mare rovinarono e gran parte del molo grande andò in rovina e presso il molo piccolo molti navigli perirono con le loro mercanzie del valore di cinquantamila ducati.

Il Villani aggiungeva  che: crollarono molti edifici della marina e il gonfiarsi del mare aveva allagato i magazzini del vino, nocciole e ogni mercanzia, con un danno di oltre quarantamila once d’oro ed è da ritenere che una tal tempesta fosse stata causata dal vento di scirocco e levante che anche altre volte avevano causato grandissimi naufragi alla nostra città (ma si trattava evidentemente di tsunami, all’epoca sconosciuto ndr.). 

 

 

 

PRIMA DISCESA

DI LUDOVICO

D’UNGHERIA

E SUE VENDETTE

 

 

 

G

iovanna, avuta notizia della morte di Andrea, mandava in Ungheria da Ludovico (*), il vescovo di Tropea, per riferirgli che, essendo lei rimasta vedova, lo pregava di assumere la sua protezione e quella del piccolo Carlo Martello appena nato; al ritorno, il vescovo, riferiva che Ludovico intendeva vendicare la morte del fratello e la minacciava, accusandola della morte di suo fratello.   

Riunito il Consiglio reale, ritenne che Giovanna dovesse prepararsi ad assumere la sua difesa, ma prima dovesse prendere marito che avesse potuto, con autorità, resistere a un tal nemico;   e fu fatto il nome di Luigi di Taranto, secondogenito di Filippo, suo amante.

Giovanna, ritenne più opportuno partire, recandosi ad Avignone e prima della partenza, riuniva i baroni, gli eletti e i governatori delle città, ai quali annunciava la venuta del re d’Ungheria, dando assicurazioni sulla sua innocenza per la morte del marito, come era manifesto a Dio (**) e disponendo che al re di Ungheria fossero consegnate le chiavi della città, sperando nella giustizia divina.

Quando Giovanna stava partendo (15 Gennaio 1347) non vi fu uomo o donna che non andasse a baciarle la mano e vederla imbarcare; lasciava il figlioletto Carlo Martello che aveva tre anni e con lei e Luigi, si imbarcavano l’imperatrice Caterina e il suo segretario particolare, il fiorentino Nicolò Acciaiuoli.

La notizia della morte di Andrea aveva suscitato nel fratello Ludovico, giovane e bellicoso, un tale sdegno che decise di vendicarlo e si apprestò ad armare l’esercito; mentre la regina partiva,  si ebbe notizia che il re Ludovico era giunto a Sulmona con un esercito di cinquemila uomini; egli quindi si stava recando a Benevento per andare ad Aversa dove gli andarono incontro i reali, il principe Roberto di Taranto, Filippo suo fratello e il duca di Durazzo, Carlo con i suoi fratelli Ludovico e Roberto e altri baroni e signori.

Ludovico, dopo averli abbracciati, chiese di essere portato dove era stato ucciso suo fratello; Carlo di Durazzo aveva cercato di portarlo via da quel luogo, avendo intuito dall’aspetto del re che voleva vendicarsi; ma il re smontato da cavallo e salendo nella sala del castello, era stato portato alla loggia dove era avvenuto il misfatto; egli, girandosi verso il duca,  gli diceva: Tu, traditore e istigatore della morte del tuo signore e mio fratello, che ti adoperasti a ritardare la sua coronazione e ti facesti dispensare per sposare tua cugina e cognata (Maria), acciò che morta la regina e suo marito, tu succedessi;  conviene che tu muoia dove facesti morire lui.

Poiché Carlo gli aveva chiesto misericordia, il re gli rispose: Come ti potrei scusare?  E gli mostrava una lettera con suo sigillo che Carlo  aveva mandato a Carlo d’Artois, in cui erano indicati i particolari dell’assassinio di Andrea.

Come Ludovico aveva ordinato, Carlo  fu prima ferito al petto dall’ungaro  Filippo, mentre da un altro, era strozzato (come affermava Camera, mentre Summonte,  riferiva che, preso per i capelli gli era tagliata la gola) e gettato dalla loggia nel giardino dove era stato gettato Andrea; il suo corpo, rimaneva insepolto per ordine del re fino al giorno successivo e poi portato per la sepoltura nella chiesa di san Lorenzo a Napoli.

In effetti Carlo di Durazzo era stato ritenuto ingiustamente responsabile; per quanto riferiva Camera, egli era estraneo all’assassinio di Andrea in quanto parteggiava per Andrea e presso gli altri,  godeva poca stima e dimestichezza per essere in contrasto con la regina che non gli aveva concesso il giustizierato di Calabria e la contea di Alba Fucente, che egli pretendeva per essere costituita in dote della moglie Maria, indicata  nel testamento di Roberto.

Morendo, Carlo di Durazzo, lasciava quattro figlie femmine, Giovanna moglie del conte Roberto d’Artois; Agnese, moglie di Cane della Scala, signore di Verona e poi di Giacomo del Balzo, duca di Andria; Clemenzia morta giovane e Margherita, nata sei mesi dopo la morte del padre,  sposava Carlo di Durazzo divenuto re Carlo III.

 Il re Ludovico per sua sicurezza tratteneva come prigionieri, i principi reali, mandandoli in Ungheria con il piccolo Carlo Martello; il suo procedere verso Napoli (scriveva Summonte)  era spaventoso, in quanto cavalcava preceduto da uno stendardo nero che rappresentava un re strangolato; egli aveva ignorato il baldacchino che gli era stato preparato a Porta Capuana e avute le chiavi di Castelnuovo, vi  si era recato, mentre i suoi ungheresi saccheggiavano le case dei principi reali; la vedova di Carlo, Maria era andata  a ricoverarsi nel monastero di Santa Maria della Croce con due delle sue bambine e poi vestita da frate andava a imbarcarsi, per raggiungere la sorella ad Avignone.

Quando Ludovico era in Castelnuovo, in tutta Italia (1348) si era diffusa la peste (che abbiamo descritto in Art. Pestilenze ecc.); egli faceva fortificare i castelli occupati, lasciandovi i suoi ungheresi  e nominando suo vicario il barone tedesco Gilforte (Wolfar), detto Lupo;  dopo essersi fermato per quattro mesi nel reame, partiva per la Puglia, dove nominava vicario Corrado, fratello di Gilforte e si  imbarcava  a Barletta. 

I baroni, increduli per questa partenza, mandavano a chiamare Giovanna e Luigi; il papa, di Avignone, atteso che  Giovanna dal Concistoro era stata ritenuta innocente per la morte del marito, aveva mandato un Legato dal re di Ungheria per trattare la pace; il Legato trovò il re molto alterato o per la morte del fratello,  per l’amore che aveva concepito per un sì bel regno, che già si trovava nelle sue mani e lo considerava suo, in quanto il piccolo Carlo Martello, nel frattempo era morto.    

Prima di partire Giovanna, avendone grande necessità, aveva venduto la città  di Avignone al papa, per ottantamila fiorini d’oro (secondo Giannone, ma altri indicavano la somma di trecentomila fiorini, non reale), con possibilità (illusoria!) di riacquistarla; il papa aveva anche riconosciuto come re, Luigi. Armate dieci galere (!) Giovanna e Luigi si imbarcarono a Marsiglia e a fine agosto sbarcarono a Sebeto (duecentotrenta passi distante dalla città), in quanto il porto con Castelnuovo e gli altri castelli erano occupati dagli ungheresi, ricevuti con  un ricco baldacchino, da nobili e popolo.

L’unico a non presentarsi era  stato il conte di Montescaglioso, Francesco, che aveva sposato la sorella di Luigi, Margherita, a sua insaputa, non sapendo la reazione che avrebbe avuto il fratello. Ma il re, facendo buon viso e avendo bisogno di amici, più che di nemici, mostrandosi favorevole al matrimonio, alla sua incoronazione, gli mandava la nomina di duca di Andria, e concedeva, come prima carica, a Nicolò Acciaiuoli per i servizi resi, quella di Gran Siniscalco del regno.

Dopo di che Luigi cercava di recuperare i castelli occupati dagli ungheresi, iniziando dal Castello di Sant’Elmo, che si arrese facilmente, passando poi ad assediare strettamente Castelnuovo, dove si trovava Gilforte Lupo, in modo che nessuno potesse soccorrerlo. Ma a  soccorrerlo era il conte d’Apice, il quale versava a Luigi trentamila fiorini, avuti i quali il re stava per recarsi  a recuperare la città saracena di Lucera. Ma, il grosso delle forze ungheresi che si trovava ad Aversa, si scontrava con l’esercito di Luigi a Melito, dove Luigi era  sconfitto ed erano stati fatti prigionieri venticinque grandi conti e baroni; per liberarli furono versati  duecentomila fiorini, che arricchirono gli ungheresi e impoverirono i napoletani.

Costoro si rivolgevano al papa, il quale mandava come Legato apostolico il vescovo Annibaldo Ceccano, il quale, mentre chiedeva una tregua tra Corrado Lupo e il re, si rivolgeva segretamente ai capitani tedeschi che egli conosceva, per essere stati al soldo della Chiesa; costoro, ricevuti centoventimila fiorini, partirono, lasciando nelle sue mani Capua e Aversa. Corrado a questo punto si ritirava in Puglia avvertendo il suo re che i tedeschi lo avevano abbandonato. Il re Luigi, recuperate Aversa e Capua, si assicurava Terra di Lavoro e le altre province circonvicine; il Legato Ceccano moriva, mentre in Ungheria il re Ludovico si preparava a tornare.

 

 

 

 

*) L’Ungheria come anche la Polonia, erano ancora in condizioni semibarbare e Ludovico detto il Grande (1326-1382) il cui regno si estendeva fino alla Dalmazia dove possedeva la città di Zara, nella sua opera di civilizzazione nel Nord dell’Occidente, aveva fatto unire gli slavi ai celti.

**) Come scrive l’Anonimo, “tra la gente correva il sospetto che Giovanna fosse stata partecipe  dell’assassinio di Andrea e quest’atmosfera di sospetto determinò la loro decisione a recarsi ad Avignone”. 

 

 

IL CONCISTORO

INDETTO DAL PAPA

AD AVIGNONE

PER GIUDICARE

 GIOVANNA I

 

 

 

I

l papa ad Avignone aveva indetto il Concistoro, per giudicare la colpevolezza di Giovanna nell’assassinio di Andrea, con la presenza di cardinali, dei vescovi e tutta la gerarchia ecclesiastica e degli ambasciatori e tutti i personaggi eminenti che erano accorsi da ogni parte dell’Europa, descritto da Alessandro Dumas (*), così come lo  traduciamo.

Al centro della sala sedeva su un trono elevato, sedeva  come presidente dell’augusto concistorio il vicario di Dio, giudice assoluto e supremo, investito del potere supremo e temporale dell’autorità umana e divina. A sinistra e a destra del sovrano pontefice, i cardinali coperti di porpora occupavano i loro posti, circondati dalla loro corte della gerarchia ecclesiastica. Di fronte al trono pontificale, un podio riservato alla regina e al suo seguito; ai piedi del papa gli ambasciatori del re d’Ungheria; il resto della sala era riempito da capitani e nobili inviati; tutti gli occhi erano fissati su Giovanna che doveva pronunciare la sua difesa; la regina era entrata dando la mano al vecchio cardinale Perigord, suo zio, seguita dalla zia contessa Agnese; il suo incedere era modesto e nello stesso tempo fiero, la sua fronte malinconica, il suo sguardo pieno di abbandono e confidenza; prima di parlare, tutti i cuori erano per lei, Giovanna aveva allora venti anni ed era nello sviluppo della sua magnifica bellezza; ma un estremo pallore velava  lo splendore della sua pelle satinata e trasparente, le sue guance magre, portavano l’impronta della espiazione e della sofferenza.

Giovanna parlò con una voce emozionata e tremante, arrestandosi ogni tanto per asciugare i suoi occhi umidi e brillanti o per esalare uno dei suoi sospiri che giungevano fino all’anima.

Raccontò con vivo dolore la morte di suo marito, addolorata e lasciando trasparire lo smarrimento e il terrore da cui era stata presa, come fulminata da questo orribile avvenimento; aveva portato la mano alla fronte con l’energia della disperazione, come per arrestare un resto di follia che fece attraversare nell’assemblea un tremito di pietà e di orrore. E certamente, se il suo racconto fosse stato falso, la sua angoscia era veritiera e terribile. Angelo ferito dal crimine, essa avrebbe mentito  come Satana, ma come Satana, essa era dilaniata dalle infinite torture dell’orgoglio e dei rimorsi.

Così, quando alla fine del suo discorso, interrotto dalle lacrime, aveva implorato l’aiuto e la protezione contro l’usurpatore del suo reame, un grido di assenso generale copriva  le sue ultime parole, mentre molte mani si posarono sull’elsa delle spade e gli ambasciatori ungheresi uscirono dall’udienza, con la fronte coperta di confusione e di onta.

La sera stessa, con grande soddisfazione del popolo, fu emessa la sentenza che dichiarava Giovanna di Napoli innocente ed estranea alla complicità nell’assassinio di suo marito; non potendo il papa giudicare il comportamento della regina dopo l’assassinio e perseguire gli autori del crimine, in questo affare rilevava una prova evidente di magia e che la colpa attribuita a Giovanna era la necessaria conseguenza di qualche sorta di maleficio gettato sulla povera regina, da cui era stato impossibile difendersi.

Nello stesso tempo il papa confermava il matrimonio della regina con Luigi di Taranto al quale assegnava la l’Ordine della rosa d’oro e il titolo di re di Sicilia e di Gerusalemme.

Dumas riportava in nota (in italiano), il commento di Villani, che, per l’assoluta verità dei fatti, la sentenza non poteva scusare la regina e levare il volgo dal dubbio del sospetto, che ciò che era accaduto  non lo fosse stato per forza di malie ovvero, fatture che le erano state fatte,  alle quali la sua natura fragile femminile, non aveva saputo, né potuto riparare (A. Dumas Les crimes celebres, Paris, 1854).

 

   

SECONDA DISCESA

NEL REGNO DI

LUDOVICO D’UNGHERIA

 

 

 

I

l re Ludovico si era preparato a tornare e con un grosso esercito di diecimila uomini tra pedoni e cavalli, giungendo in Puglia (1350) e dopo aver occupato Trani, a Canosa gli fu fatta grande resistenza e i canosini respingevano gli ungheresi; ciò nonostante il re si recava in Principato, prendendo Salerno e Nocera; proseguendo per Aversa che egli aveva smantellato, non sapendo che era stata fortificata e custodita da Jacobo Pignatello con cinquecento soldati, e nell’assalirla era rimasto ferito a un piede; decise di prendere la città  per fame e dopo tre mesi di assedio Pignatello si arrese con salvezza delle persone.

Il re Luigi, avendone avuto notizia, lasciava Napoli, e temendo il peggio, con Giovanna si recava a Gaeta, mentre Ludovico, venuto a sapere della loro partenza, si recava a Castelnuovo;  dopo aver chiamato i governatori dei Seggi della città (*), li rimproverava di aver avuto poca fiducia in lui, e aver voluto seguire la regina; egli, comunque si mostrava benigno verso la città, per  aver  promesso il sacco ai suoi soldati, era ben contento di farlo evitare; ma chiedeva una contropartita.

I governatori si riservarono di dare una risposta; ma il popolo avendo notato che i soldati ungheresi con i loro cavalli soffrivano la fame, vedendo che i cavalli erano macilenti e a stento reggevano le selle, e avendo sentito della disponibilità del loro re verso gli ungheresi, si ribellarono facendo ricorso alle armi; al che, Ludovico decise di partire  recandosi con l’esercito in Puglia, per tornarsene in Ungheria. 

Il papa, stanco dei due re, decise di mandare legati per trattare la pace e il legato si era recato dal re Ludovico, il quale, o per merito, o perché doveva far guerra a Venezia, che si era impadronita di suoi possedimenti in Dalmazia, riusciva ad ottenere la pace (1351);  con la firma della pace, erano liberati i principi reali, tenuti prigionieri da quattro anni a Visegrad; Ludovico per magnanimità ricusava trecentomila fiorini, in quanto, non era venuto per ambizione ma per vendicare la morte del fratello.

Il re Luigi e Giovanna, ringraziarono il papa e il Collegio per l’opera prestata, chiedendo un Legato per  incoronarli e fu mandato il vescovo di  Braga che provvide a incoronarli.  

In questo periodo (1354), proveniente dalla Francia, era giunto a Napoli con dieci galere, il Grande Almirante del regno,  Rinaldo del Balzo, conte di Avellino, il quale si recava a Castel dell’Ovo dalla duchessa Maria, vedova di Carlo di Durazzo, che lei riceveva in amicizia, ma il conte le diceva di volere che sposasse suo figlio Roberto; Maria rifiutava e l’Almirante prendendola per forza, la conduceva sulla sua galera dove Roberto la violentava.

Il re Luigi che si trovava a Gaeta, informato, raggiunse il conte del Balzo con una sua galera e dopo aver fatto prigioniero il figlio, lo portava a Castelnuovo, dove si era recata  Maria con quattro uomini armati, che in sua presenza lo faceva ammazzare e dopo avergli  tagliata la testa, il suo corpo era buttato in mare. L’anno successivo Maria sposava Filippo di Taranto, fratello del re Luigi.

 

 

*) Giovanni Barrile per Piazza Capuana, Bartolomeo Carafa per Nido, Roberto di Rimini e Andrea di Tora per la Piazza della Montagna, Nardo Ferrillo per la  Piazza del Porto, Filippo Coppola per la Piazza di Portanuova e Leonardo Terracina per la Piazza del Popolo

 

 

 

 

 

 

 

NUOVA INCORONAZIONE

DI GIOVANNA I

CON LUIGI DI TARANTO

CHE MUORE DI FEBBRE

 

 

 

G

iovanna e Luigi, come abbiamo detto, avevano chiesto al papa di mandare a Napoli un Legato per incoronarli, e il papa aveva mandato come Nunzio apostolico, Guglielmo de Gardia,  vescovo di  Braga; essi comunicarono le loro prossime nozze, autorizzate con bolla del papa, ai principali dinasti e signori delle Corti d’Italia per la prossima festa di Pentecoste (il 25 Maggio 1352); la regina aveva preso in prestito per la solennità dell’incoronamento,  dai mercanti fiorentini, Emanuele Tedici e Sandro Bonifacio, la somma di quattromila trecento settantuno fiorini d’oro, versati a Lapo Bianco di Firenze, per l’acquisto di gioie e vasi d’oro e d’argento.

La cerimonia ebbe luogo al Palazzo di Giustizia della Corte della Vicaria (che Giovanna per devozione aveva poi convertito in chiesa con accanto un ospedale), con la consacrazione, prima di Luigi e poi di Giovanna con la corona di Gerusalemme e Sicilia, che ricevettero il giuramento e l’omaggio di tutti i baroni che, in passato, non avevano preso parte a guerre contro di loro.

Sebbene il regno fosse assuefatto ai travagli, incendi, morti e rapine, finalmente ebbe la possibilità di fare grandi festeggiamenti con la cavalcata del re e della regina, turbata solo da un evento che apparve di cattivo auspicio per Luigi.

Delle donne dalle finestre lanciando fiori, avevano spaventato il cavallo del re, che si era impennato; il re per evitare di cadere, agilmente era saltato dal cavallo e la corona che aveva in testa cadeva, spezzandosi. Il re, senza dar peso  al fatto, rimise la corona in testa e animando i suoi e sorridendo, saliva  su un altro cavallo, riprendendo la sfilata e  a sera giungevano a Castelnuovo.

Lo stesso giorno a Giovanna moriva una bambina di nome Francesca, ma i festeggiamenti proseguirono ugualmente per tre giorni, tra giostre, giochi d’arme e conviti ai quali parteciparono nobili e popolo di ambedue i sessi.

Luigi e la regina, pur nelle ristrettezze, provvidero a concedere nuovi titoli ai baroni, che ora erano di  duca e di conte; i primi ad avere quello di duca  erano stati Francesco del Balzo, duca di Andria e il secondo a Marzano, duca di Sessa.

L’anno seguente il re Luigi (che aveva trentadue anni), in memoria della sua coronazione, istituiva l’Ordine del Nodo, la cui divisa era contrassegnata da un nodo d’oro legato sul petto (secondo altri, sul braccio) con sessanta dei signori tra i più valorosi, che giurarono per la difesa del re.

Finiti i festeggiamento, ebbero inizio i dissapori, in quanto Luigi consigliato da Nicolò Acciaiuoli (amante della madre Caterina, v. nota sopra), infido nei confronti di Giovanna, con la quale faceva il doppio gioco in favore di Luigi che voleva prendere il comando del regno, mentre Giovanna non era d’accordo.

Il papa Clemente VI venuto a conoscenza delle discordie tra i due sposi aveva scritto a Giovanna suggereendole di essere prudente e cedevole nei confronti del marito; Giovanna rispondeva al Santo Padre, lamentando il comportamento del marito che aveva fatto imprigionare ingiustamente Enrico Caracciolo e suo figlio.

Luigi, infatti, per gelosia e per vendicarsi, non solo aveva fatto imprigionare Enrico Caracciolo-Rosso, Siniscalco e Gran Camerario. per il quale la regina aveva una segreta passione, ma anche del figlio Antonio, e li aveva espropriati della contea di Gerace e degli altri loro beni.

Luigi non potette godere il regno in pace perché, (come diceva Costo), ebbe travagli che durarono finché visse;  recatosi in Sicilia, trovava regnante Federico d’Aragona e poiché con Giovanna avevano quel titolo, concordava di riconoscergli quello di “re di Trinacria”; colpito da fortissima febbre, Luigi moriva nel 1362 all’età di quarantadue anni; aveva passato con Giovanna cinque anni prima dell’incoronazione e dieci anni dopo.

 

 

 

I NUOVI MARITI

DI  GIOVANNA I

E LO SPASIMANTE DEL BALZO

L’ELEZIONE DI DUE PAPI

L’ASSASSINIO DI GIOVANNA 

 

 

 

D

opo la morte di Luigi di Taranto (1362), a Napoli si era presentato il fratello Roberto, con l’intenzione di prendere in mano le redini del governo; ma Giovanna, che ora aveva trentasei anni, proprio per evitare ciò, prendeva in considerazione il matrimonio con l’infante di Maiorca, Giacomo d’Aragona, celebrando le mozze (1363), con plauso generale, concedendogli il titolo di duca di Calabria.

Dopo tre mesi passati con Giovanna, Giacomo partiva per andare a combattere per suo padre, ma era fatto prigioniero e Giovanna lo riscattava col  pagamento di quarantamila ducati; nel 1368, Giacomo ripartiva per soccorrere il genitore, ma moriva in battaglia (1368); ma vi era stato chi aveva invece scritto fosse morto per gli strapazzi sessuali ai quali lo aveva sottoposto Giovanna!

Ora Giovanna aveva quarantadue anni, certa di non poter avere un figlio al quale lasciare il regno, sposava Ottone di Braunwich di Sassonia (1376), che viveva in Italia come capitano dell’esercito pontificio.

Giovanna nello sposare prima Giacomo e poi Ottone, aveva indispettito il suo pretendente, Francesco del Balzo (primo di tre Franceschi della Casa del Balzo), nipote di Raimondo, Camerario della regina. Oramai i Del Balzo, con matrimoni femminili, avevano trasfuso nelle loro vene sangue reale e mancava solo che uno di loro sposasse una regina.

Francesco era uno spasimante, invaghito di Giovanna  (... ma non si può dire se di lei o del regno!), e per ben due volte si era proposto di sposarla e per due volte era stato in attesa del suo consenso, che non gli era giunto e dei due matrimoni di Giovanna, il secondo gli aveva suscitavano reazioni di vendetta, da renderlo  proscritto e ribelle.

Come erano andate le cose, le descriveva il drammaturgo Giacinto Battaglia (*), che riferiva particolari interessanti ai fini della tragedia che colpirà Giovanna, compiuta da Carlo III.

Alla morte di Luigi di Taranto, Francesco del Balzo, si era proposto di sposarla ed era in attesa della risposta che, senza alcun dubbio egli riteneva sarebbe stata positiva: Un giorno,  fu visto passeggiare taciturno e rabbuiato nelle sale del suo castello di Tiano in Puglia (?) e fu sentito mormorare indistinte parole d’ira. Mai sapremmo dire quali turbamenti lo agitassero, il suo amore disprezzato o la sua ambizione delusa; gli era stato riferito che Giovanna sposava Giacomo di Maiorca. Le nubi della sua fronte sgombrarono come dissipate da una malia; un leggero sorriso si dispiegò sul suo labbro pallido e contratto, un’aria di insolita esclamazione trasparve da tutto il suo volto. Ordinava al numeroso stuolo di servi, di guardie e di giovani scudieri, che lo seguissero e recatosi a Napoli, dopo aver indossato splendide vesti, era andato a rendere omaggio agli sposi che festeggiavano il loro matrimonio.

Dopo non molto tempo, Francesco ebbe notizia della morte di Giacomo; il suo amore si ridestò e all’amore si aggiunse il potente stimolo dell’ambizione. Da più giorni egli attendeva importanti messaggi da Napoli, quando giunse al castello uno sconosciuto, che dall’aspetto e dagli abiti sembrava appartenere all’ordine degli avvocati della Chiesa, che domandò di parlargli in segreto; fatto ciò, lo sconosciuto si accomiatò dal duca. Egli appariva soddisfatto e si intratteneva familiarmente con i suoi primari ufficiali e li assicurava di un immediato esito delle sue e delle loro fatiche, quando un nuovo caso tornò a rabbuiare il suo animo e lo mise sulla via della ribellione e delle violenze.

Un mattino giunse un messaggio del suo vecchio zio Raimondo del Balzo, Gran Camerario della regina, quando aprì un foglio dove pensava di leggere la sospirata conferma della regina, pronta ad offrirgli la sua mano e una corona. Se nonché  egli si fece pallido e annuvolato e gettato il foglio si mise a passeggiare per la stanza, in silenzio. Ottone di Brunswich, si sentì mormorare; lei mi ha posposto a uno straniero. La ribellione covava nel suo animo, si strappò dal collo una catenella d’oro con una medaglia che gli aveva donato la regina, la spezzò e la gettò dalla finestra, pensando alla vendetta.

Degli otto sergenti d’arme che egli aveva disponibili, era capo un certo Squarciabrigante addetto fin dall’infanzia al servizio della sua famiglia, che era solito adempiere agli incarichi inconsueti e pericolosi che gli erano affidati.

 Squarciabrigante, con lo stemma dei del Balzo ricamato sul mantelletto, che gli scendeva dalla spalla, si era recato dal giurista Leobaldo d’Isernia, maestro di creanza del piccolo Ladislao, portandogli un piego da parte di Francesco, che Isernia mandò alla duchessa, mentre Squarciabrigante se ne tornava dal suo padrone.  

Il piego conteneva una lettera di Carlo di Durazzo alla moglie, quando nel trevigiano militava per il re d’Ungheria, in cui riferiva certi particolari che la portavano a recarsi a Roma dove egli l’avrebbe raggiunta, per comunicarle i gravi disegni che meditava e dovevano in breve maturare (lei aveva sempre la speranza che la zia, regina Giovanna, anche sposando Ottone avesse un pensiero per il nipote Ladislao). Lei ebbe un lungo colloquio con Leobaldo d’Isernia.                         

Ma il maestro di creanza, invece di consigliarle un moderato partito, le suggeriva di attenersi a quanto indicato nel foglio, vale a dirle di fuggire dalla Corte di Napoli e dal regno per “i terribili casi” che si andavano preparando .

Margherita si era recata dalla regina per chiederle il permesso di partire e raggiungere il marito che desiderava godersi qualche piccola gioia che gli impegni militari non gli consentivano e trattenersi alcuni giorni; la regina, senza avere alcun sospetto, acconsentiva a lasciarla andare, ignara di ciò che le sarebbe successo; tenendola infatti con sé, avrebbe potuto barattare la sua vita; ma il destino aveva deciso diversamente!

Nel frattempo moriva  il papa Gregorio XI, ed era eletto Urbano VI (1378), non gradito a Giovanna in quanto appoggiava Carlo di Durazzo (futuro Carlo III);  ma i cardinali francesi si riunivano a Fondi ed eleggevano l’antipapa Clemente VII (Roberto di Ginevra 1378-1394), che Giovanna, su pernicioso consiglio del suo Gran Cancelliere, che la porterà al precipizio (scriveva Costo), Nicola Spinelli, conte di Gioia, accoglieva  con grandi onori in Castel dell’Ovo.

Ma insorgevano con le armi i napoletani, che non volevano due papi e per loro ne bastava uno, vale a dire Urbano VI, escludendo il francese; le conseguenze non si fecero attendere in quanto Urbano VI, scomunicava Giovanna alla quale toglieva il regno, assegnandolo a Carlo di Durazzo (come Carlo III), che militava per il re ungaro, per il quale stava guerreggiando in Friuli contro i veneziani.

Il papa Clemente VII, di fronte alla rivolta dei napoletani, non sentendosi più sicuro in Castel dell’Ovo. se ne partiva per la Francia (1379), mentre Giovanna assegnava al figlio secondogenito del re Giovanni di Francia, duca Luigi d’Angiò (1379), in donazione dopo la sua morte (con l’assenso dell’antipapa), il Regno di Napoli e Sicilia.

I napoletani, non volendo nuovamente finire sotto la dominazione francese, chiedevano  la venuta di Carlo III, considerandolo loro compatriota; confermato e chiamato dal papa Urbano VI, egli giungeva a Roma con un esercito di ottomila ungheresi e mille italiani, con il comando affidato a Giovanni Bano, nominato senatore romano (1380).

L’anno seguente, ingrossato l’esercito con le bandiere del Vaticano, Carlo III giungeva a Napoli, dove trovava ad attenderlo Ottone, marito di Giovanna; ma Ottone era sconfitto e fatto prigioniero; successivamente liberato da Carlo III, a condizione che uscisse dal regno.  

Dalla Francia era giunto anche Luigi d'Angiò, adottato da Giovanna, che gli aveva donato il regno, con un  esercito di cinquantamila soldati (1382), non solo per assumere il regno, ma per togliere il papa Urbano VI dal trono; Luigi si era recato in Abruzzo dove aveva preso l’Aquila e altre città si erano date a lui; a Napoli erano giunte anche dodici galere che presero Castellammare di Stabia, per  poi passare in Puglia dove fu attaccato dal conte Alberigo da Barbiano e Luigi riusciva a salvarsi con cinque ferite; ma recatosi a Bisceglie fu colto da febbre e moriva (1383) e  il suo esercito andava disperso.

La regina Giovanna, si era rifugiata a Castelnuovo e vistasi perduta, circondata dalla nobiltà,  ricevendo Carlo III, con le dolci parole che sapeva ben usar, si metteva nelle sue mani; ma Carlo dava ordine a Gabriele Orsini, di farla rinchiudere in un posto sicuro.

Carlo nello stesso tempo scriveva al re ungaro, per chiedergli cosa dovesse fare di lei; la risposta era terribile e non lasciava scampo: doveva morire, allo stesso modo in cui era stato fatto morire Andrea suo marito.

Orsini la affidava a Squarciabrigante, il quale, dopo aver preso un gruppo di sgherri tra i suoi compagni, si recava a Castelnuovo a prelevare Giovanna e, impadronitosi del castello, intimava in tono minaccioso a tutti i presenti,  di sgomberarlo entro due ore.   

Nel silenzio delle sale echeggiavano urla e grida selvagge dei compagni di Squarciabrigante, che aveva dato ordine a un suo compagno  di nome Masaccio, di attendere il risveglio della regina che dormiva.

A parte Squarciabrigante con i suoi sgherri, nel castello non vi era anima viva; ma da una porta segreta della camera dove dormiva Giovanna, apparvero le sue due inseparabili dame, Irene di Durazzo e Teodolinda Collenuccio e nello stesso tempo entrava Squarciabrigante che vide le donne piangenti; disse alla regina di prepararsi a partire, essendo già  notte, e di staccarsi dalle due donne,  se non voleva fossero allontanate con la forza.   

Quando la regina fu pronta la fecero salire su una lettiga e la colonna si mise in cammino per recarsi in Basilicata, dove si trovava la squallida rocca di Muro, dove giunsero la sera del giorno seguente.

Il castello era di antica e barbara architettura, diroccato e si presentava come un cumulo informe di rovine; la regina fu condotta all’interno della torre principale, dove le feritoie sostituivano le finestre e le porte erano chiuse con chiavistelli; la povera regina si rese conto che in quella specie di sepoltura era giunta alla fine dei suoi giorni e distesa su una panca con un materasso, si addormentava.

La sua condanna fu eseguita da Squarciabrigante che strangolava la regina con le sue stesse chiome, emettendo un gemito fioco e prolungato, soffocata sotto i piumacci del letto.

Il suo corpo era portato a Napoli nella chiesa di Santa Chiara, per ordine del re, esposto per sette giorni, insepolta, perché fosse vista da ogni persona e i suoi partigiani uscissero da ogni speranza. 

Seguiva di pochi mesi la morte di Ludovico d’Ungheria (12 Settembre 1382), suo implacabile nemico, che con l’assassinio di Giovanna, aveva vendicato la morte di suo fratello. Amante delle lettere, aveva emanato buone leggi e  abolito i duelli giudiziari; denominato il grande  per le sue virtù, per il suo valore e per le vittorie conseguite. Aveva lasciato due figlie, Maria che gli succedeva, prendendo il nome di “re” non di “regina” ed Edvige assumeva il regno di Polonia.

Carlo III, invitato da alcuni magnati ungheresi che non intendevano ubbidire a una fanciulla, lo avevano invitato a prendere questa corona. Maria era scacciata e Carlo, recatosi a Buda si impadroniva del regno, ma contro di lui era ordita una congiura e, finiva i suoi giorni, assassinato (6 febbraio 1386), dopo quattro anni e cinque mesi dall’assassinio di sua zia Giovanna I.

 

 

 

 

*) Giacinto Battaglia (1803-1861) drammaturgo, storico e giurista, autore del libro Giovanna I  regina di Napoli, Milano 1835.

 

 

 

GIOVANNA I 

NEL GIUDIZIO

 DI BOCCACCIO E

GIOVANNA I e II NEL

SARCASTICO RACCONTO

DI BRANTOME

 

 

 

G

iovanni Boccaccio, giovanissimo, era stato mandato dal padre, a Napoli per imparare l’arte del commercio, ma egli aveva interesse per la poesia e letteratura e si era legato in amicizia a Petrarca, e frequentando la Corte del re Roberto, aveva potuto conoscere le due sorelle Giovanna e Maria (amata e celebrata  Fiammetta” e ”Filocopo”) e descrivere Giovanna: “E’ di gran bella presenza, con un viso gioioso e un modo di  parlare mite e grazioso e tutto ciò che fa è pieno di grandezza e maestà reale e ugualmente si mostra umana, familiare pietosa, buona e dolce tanto da non dare l'impressione di essere una regina, ma compagna di chi  l'avvicina.

Che cosa si può augurare di meglio a un monarca di tal fatta? A voler parlare della integrità della sua anima sarebbe un discorso troppo lungo; come ho detto sui tanti doni di grazia che possiede, la stimo come Dama veramente eccellente e la reputo ancora di più per la singolare ricchezza che porta all'Italia tale che nessun altra nazione ne ha mai visto di somigliante.

Non avendo alcun altro erede di miglior sesso, così, per ordinanza dell'avo fu dichiarata erede del regno. Con l'aiuto di qualche valente capitano aveva fatto punire i malfattori con giuste pene che nessuno dei precedenti re aveva fatto poco o non aveva fatto per niente.

Saggia e prudente era piuttosto caduta per tradimento che per  sottigliezza di spirito era stata tormentata da problemi domestici dei fratelli del re; qualche volta aveva subito guerre di stranieri, in mezzo al suo reame, la fuga dell'esilio, i modi crudeli di qualche marito, l'odio dei nobili, la cattiva fama non meritata, le minacce del papa e altre infinite avversità che lei era riuscita a superare con un fermo e invincibile coraggio; sopportando con una meravigliosa costanza”.

Di tenore sarcastico era stata la descrizione di Pierre de Brantome, (Des Dames, Paris, 1875), di cui diamo la traduzione.

Per distrarmi un po’ dai discorsi sul nobile sangue di Francia, mi ha preso la fantasia di scrivere delle due regine, Giovanne di Napoli, che, essendo uscite da questo nobile sangue di Francia, io ne voglio parlare; sì che il racconto che si potrà fare su di esse, con una buona e ben distinta penna, riuscirebbe piuttosto molto forte e gradevole, in quanto il soggetto è tale.

Comincerei da Giovanna figlia di Carlo duca di Calabria e Maria di Valois che aveva per primo marito Andrea;  molti dicono che Andrea non soddisfacesse troppo i bisogni notturni della regina, come il disordinato appetito della dama avrebbe desiderato, sebbene egli fosse giovane, gagliardo e in buona salute.

Giovanna era uscita dalle propaggini di Roberto, di cui hanno parlato molti scrittori del tempo tra i quali Boccaccio e Petrarca. E’ ben vero che chi ha scritto la Storia di Napoli  ha detto forse tanto, vorrei dire troppo, divertendosi a dir male di lei (Brantome aveva consultato Collenuccio ndt.), secondo il costume degli storici italiani, che sono stati gran ladroni della gloria e del linguaggio di noi francesi. Ecco cosa dice questo storico di lei dedita, in pieno, all’amore.

Come primo marito aveva sposato Andreasso, cugino di secondo grado e dopo  aver tenuto insieme il regno, se n’era disgustata e stando ambedue nella città di Aversa, una notte lo aveva fatto chiamare, dicendo che voleva parlargli di un nuovo avvenimento; recandosi da lei, era giunto presso un poggiolo che si trovava in quel posto, e fu preso e strangolato per volontà e incarico della regina, sul detto poggiolo.

Molti dicono che non soddisfacesse troppo le richieste della regina, ai suoi bisogni notturni, sebbene fosse giovane, gagliardo e in buona salute, come l’appetito disordinato della signora desiderava. E si raccontava ancora all’epoca a Napoli, che la detta signora, facendo un lungo cordone d’oro assai grosso, Andreasso le chiese perché faceva quel cordone. Lei rispose sorridendo che lo faceva per appenderlo.

Lei lo considerava in sì poco conto che non si era trattenuta dal dire tali parole alle quali Andreasso, come semplice e buon uomo che egli era, non diede alcun peso, ma ben presto ne seguì l’effetto. Di ciò lei ritenne di giustificarsi con Luigi d’Ungheria, fratello di Andreasso; ma il re a tali giustificazioni non dava alcun peso e le scrisse: “La tua vita disordinata precedente. la signoria del reame che tu hai voluto tenere nelle tue mani, la vendetta di quelli che hanno colpito tuo marito, non perseguiti, l’altro marito lussurioso che hai sposato e le scuse che dopo mi hai inviato, sono piene prove che tu sei stata partecipe e complice della morte di tuo marito”.

L’uomo che aveva sposato era un suo cugino, figlio del principe di Taranto che lei aveva molto amato durante il matrimonio con suo marito, con cui era stata legata per tre anni in grande intimità; ma egli morì estenuato dagli eccessi troppo spesso impiegati al servizio della regina, in favore della signora Venere.

Poi lei sposava per terzo marito Giacomo di Tarancon, infante di Maiorca che era stato tenuto in riserva, bel personaggio disponibile trovato sul posto, che lei non aveva voluto portasse il titolo di re, ma quello semplice di duca di Calabria. Perché lei aveva voluto dominare e regnare da sola e non voleva avere compagni con i quali dividere il potere, e lui si era dedicato a un’altra donna, perché di più bella non potesse avere che la sua, ancora più bella e lei lo fece morire, facendogli troncare la testa.

Per quarto marito lei prese Ottone di Brunswick, della razza di Sassonia che era un gran capitano che sposava nel 1378 Giovanna; ma Carlo di Durazzo (Carlo III) detto Carlo della Pace, si era impadronito della sua persona e dopo averla tenuta in prigione per qualche tempo, la fece mettere a morte (1382).

 

 

 

LA PIAGA DEL

BRIGANTAGGIO

NEL REGNO RITENUTA

DA DUMAS

ELEMENTO NATURALE

 

 

 

M

entre in Italia spadroneggiavano le “compagnie d’armi o di ventura”, scriveva Dumas,  non si cerchi una data, il brigantaggio meridionale è sempre esistito”. 

Quando Luigi era in Sicilia (1357), nelle province del principato di Avellino e Salerno pullulavano masnadieri e banditi, infestando e taglieggiando liberamente lungo le strade, impedendo la libera circolazione dei viandanti, in modo che il commercio ne risentiva notevole danno.

Il numero dei ladroni e banditi, si era reso così insolente che il Giustiziere, non potendo fermarli o espellerli ed estirparli, fu costretto a chiedere al governo di concedere un indulto e fu dato incarico a Raimondo del Balzo, conte di Soleto, di assolvere questo compito; ma i masnadieri lo ripudiarono obbligando del Balzo a combatterli; il governo era snervato di forze e combattuto da ogni lato, immiserito e minacciato dalle compagnie armate di ladroni e banditi, e indotto a sottostare alla protezione e autorità della santa Sede.

Il brigantaggio (1358) infieriva sempre più in molti luoghi del regno, spargendo lutti,   terrore e desolazione. I sindaci di Napoli concorsero ad offrire alla regina venticinquemila fiorini (1358), per l’espulsione dei masnadieri dal regno. Il governo aveva mandato negli Abruzzi settecento uomini a cavallo e altrettanti fanti sotto la guida e il comando di strenui capitani e nello stesso tempo aveva dato agli aquilani la facoltà di  fabbricare fortificazioni nel loro territorio, per difendersi dalle masnade.

Una nutrita banda di duecento fuoriusciti, dopo aver devastato le ubertose campagne di  Nola, si impadronirono delle terre di Palma, ma furono presto scacciati; avidi di bottino  i ladroni saccheggiarono le terre di Eboli e avanzarono fino alla Terra d’Otranto, ponendo  a soqquadro la città di Mottola, come riferiva la Cronaca di Filippo Crisullo (mns.).

Intanto parecchi baroni non si vergognavano a dare protezione e ricetto agli stessi    banditi e le strade divenute malsicure al transito per i pacifici viandanti. Le due  province del Principato erano le più infestate dai masnadieri i quali, divenuti baldanzosi. saccheggiavano e uccidevano e spesso mettevano tributi e combattevano le regolari milizie.

Riuscito vano ogni sforzo del Giutìstiziere per estirpare o ridurre i malandrini, i sovrani diedero nuovamente incarico al gran camerario, conte del Balzo, di fare delle concessioni ai briganti, purché desistessero dalle loro infami rapine. Ma ogni tentativo, per mancanza di danaro (il papa per ottenere il censo, minacciava la scomunica!), era riuscito inutile e non rimaneva altro che attendere tempi migliori!  

Su questa piaga, e sulle sue origini, Alessandro Dumas (*)  si era così espresso. 

Non si cerchi una data più o meno recente al  brigantaggio napoletano: è sempre esistito!  Il brigantaggio negli Abruzzi, nelle Puglie, nella Basilicata , nella Terra di Lavoro è non solo indigeno, ma indistruttibile. Dove, il gladiatore Spartaco era fuggito dall’anfiteatro di Capua? Appunto, dove ha scorazzato fino ad oggi Pilone, alle falde del Vesuvio. Dove raduna un esercito?  Dove trova settantamila soldati? Fra i Bruzi, in Calabria. Dove Crasso riesce a raggiungerlo e a schiacciarlo? Sul Silaro, oggi Selo, dove Manhès nel 1810 fece le sue più terribili spedizioni contro i briganti.

Ogni terra, secondo la sua conformazione delle pianure. delle valli o  montagne, ha i suoi naturali prodotti. L’Italia meridionale produce naturalmente frumento nelle pianure, olio nelle valli, briganti sulle montagne. Un proverbio calabrese dice: “i briganti crescono con le foglie”. Ed infatti, ogni anno, scacciati dall’inverno, i briganti si riducono a casa, come i lucchesi, dopo essere andati a far le messi in Corsica, ed ogni anno, con le foglie. i briganti ri-pullulano. Nell’Italia meridionale si è briganti come si è muratori, conciatetti, calderaio, maniscalco o sarto. Il brigante ha la sua casa a cui, come abbiamo detto, torna l’inverno; ha famiglia, amici, un confessore. Nessuno pensa a denunziarlo perché tutti farebbero quel che fa. “Mio padre era fabbro; sono fabbro; mio padre era brigante; sono  brigante”. Quali sono i due rimproveri che si fanno più amaramente a Giuseppe (Bonaparte), durante i suoi due anni di regno? –D’aver fatto fucilare il marchese Rhodio e impiccare il duca Fra-Diavolo. Che mali avevano fatto, infelici, uno per esser fucilato, l’altro per essere impiccato? Nulla; erano stati briganti; non altro.  Qual nome danno i contadini ai soldati italiani che oggi, nell’Italia meridionale dan la caccia ai briganti? “La corte”. Come chiamano i banditi che son cacciati dai soldati? “I fratelli”. Tutta la difficoltà, tutto l’accanimento, tutta l’eternità della lotta è in queste due parole. Per il contadino, per il colono, per il cafone dell’Italia meridionale, l’uomo della legalità è stato   e sarà sempre “la corte”. L’uomo del furto, della rapina, dell’incendio è stato e sarà sempre “il fratello”.

Risalendo all’epoca dei viceré spagnoli, quando son venuti a rappresentare i loro sovrani  Napoli, trovarono il brigantaggio già rigoglioso, stabilito sulle stesse basi e alimentato dagli stessi mezzi che lo tengono vivo. Cominciamo dal duca d’Alcalà, che venne a Napoli nel 1559; suo primo atto fu di emanare contro i briganti una prammatica che permetteva  di perseguitare i fuoriusciti, con licenza ai soldati dello Stato nel caso si rifugiassero in questo.

Passando al conte d’Olivares; venne a Napoli nel 1559 e pubblicò un’ordinanza che  puniva con la pena di morte coloro che taglieggiavano con lettere, richieste oppure bruciando seminati o uccidendo animali di coloro che sono stati minacciati con richieste di danaro devono essere puniti con la pena di morte ... con una taglia di cento ducati per quelli che li uccidessero ... tenendo sotto sorveglianza i parenti fino al quarto grado.

Passando al duca d’Alba, figlio del famoso duca, con la sua prammatica del 1622, che stabiliva che i  delinquenti che bruciano campi o mandano lettere o richieste di riscatto possono essere ammazzati, ancorché fossero mediatori, come anche si demolissero le loro case e si bandissero i parenti dal regno ... . Il suo successore don Ferrante Afan de Rivera, duca di Alcalà, aveva trovato il regno talmente funestato dal brigantaggio che aveva aggiunto alle precedenti prammatiche ne aveva emessa altra che confermava la precedente del duca d’Alba disponendo la pena di morte per coloro che li nascondevano e altrettanto ai parenti di secondo grado per coloro che non li consegnassero alla giustizia.  

Il duca di Medina, che aveva introdotto (1637) la carta bollata, aveva messo numerose tasse, anche quella sulle meretrici; e aveva emesso quattro prammatiche contro i banditi, che ripetevano le precedenti, e il suo successore ammiraglio di Castiglia, aveva fatto altrettanto contro banditi e vagabondi; ma tutto era rimasto senza effetto, il brigantaggio non era stato neanche scalfito.

Altrettanto quando era salito al trono Carlo III, e il suo ministro Tanucci (il Colbert di Carlo III), giustiziato con la decapitazione, aveva fatto pubblicare un manifesto del seguente tenore: “Non si vedono che briganti per le strade e per le campagne; ... non si vede che brigantaggio, scelleraggine, incendi commessi da ogni parte; ... Si comanda ai  magistrati di arrestare e uccidere i disturbatori della pubblica pace ... ma, potendo ciò essere insufficiente, si consiglia di viaggiare in carovane e bene armati”.

Con il successore di Carlo III, Ferdinando, i briganti erano  aumentati.

Dumas poi prosegue raccontando, alla sua maniera accattivante, le storie  dei principali briganti da Angiolino del Duca, povero contadino, servo di un barone  che lavorava con una mula che era morta; il padrone glie’aveva fatta pagare; Angiolino,  che non aveva mai commesso  nessuna violenza, così taglieggiato dal suo padrone, era finito in una banda di ladroni di cui era divenuto capo.

Dumas, da Angiolino arriva fino a Cipriano La Gala, con i quali il brigantaggio meridionale compiva furti sulle strade, lettere di ricatto, incendi di masserie e uccisioni  di greggi; con il re Ferdinando, diceva Dumas, il brigantaggio prendeva un colore nazionale, Infatti Ferdinando con la triste sconfitta avuta da Championnet nel 1798, aveva lanciato un appello al brigantaggio, per supplire alla guerra con il pugnale, l’imboscata e l’insidia; da costoro, proseguiva Dumas, uscirono gli eroi che furono Mammone, Fra Diavolo Sciarpa, De Cesare, Boccheiampe ecc. .

 

*  *  *

 

La situazione attuale, in Italia su come sono ben insediate e si convive con le organizzazioni mafiose, è arcinota e la ndrangheta (calabrese) vanta il primato in Europa dello spaccio di stupefacenti.   

Con questa eredità l’Italia è divenuto un Paese dove regnano truffe, grandi (al primo posto per quelle ai finanziamenti dell’U.E.) e piccole quotidiane, e malavita; i furti delle borseggiatrici sono compiuti da donne incinte, per non essere arrestate; con una Giustizia in stato comatoso, con processi, grandi che durano una vita e le sentenze arrivano quando gli interessati sono morti e piccoli che durano anni; essa si è tanto incancrenita che gli avvocati si sono assuefatti e neanche protestano; le città non sono più sicure e le periferie in degrado, con il Governo di destra (ma quello di sinistra aveva lasciato che ne  fossero poste le basi!), che non fa altro che aumentare  pene e reati,  con le carceri sovraffollate che danno luogo a un elevato numero di suicidi, anche tra le guardie carcerarie; ma il ministro assicura che i suicidi sono nella norma; e i problemi rimangono.

La sua riforma, che doveva travolgere l’intero sistema, è ridotta alla divisione delle carriere tra giudici della difesa e giudici dell’accusa, che è in re ipsa, nel sistema accusatorio che ha sostituito il sistema inquisitorio, come in tutti i paesi civili. Niente nuovi codici, snellimento delle procedure, sistema informatico che non funziona e invece di cambiarlo lo si lascia non funzionare!  

L’Italia è un Paese conservatore contrario a ogni riforma e non si porta al passo con i tempi: il ponte di Messina potrebbe servire da emblema; si è messa di traverso anche la magistratura!; come diceva Sergio Marchionne se in Italia si presenta un progetto, vi sono dieci no ad opporsi; e abbiamo un partito che si presenta come progressista e riformista, che di fatto è contrario a ogni forma di progresso e a ogni tentativo di riforma!

 

*) A. Dumas, Cento anni di Brigantaggio nelle province meridionali d’Italia, Napoli, 1863.

 

*) Scriveva Matteo Camera, che intorno all’anno 1339  erano state introdotte in Italia da Ludovico Visconti, compagnie d’armi, ovvero masnadieri o predoni sotto il nome di Compagnia di San Giorgio e si erano formate man mano sotto la scorta di Corrado Wolfard detto Lupo, del monaco Monreale e del conte di Landau (indicato dagli storici come conte Lando) ed altri. Tutti costoro vennero poi assunti dai vari Principi e Comuni e fra gli altri, Corrado Lupo (di nome e di fatto, servì ora gli uni ora gli altri con la sua forte banda detta la gran Campagna, ma senza legarsi con nessuno M. Camera).

 

 

 

LA SUCCESSIONE

 DI DUE BAMBINI

LADISLAO E LUIGI

SOSTENUTI DA DUE PAPI

 

 

 

C

arlo III, morendo,  lasciava una figlia, Giovanna di quindici anni e un figlio di poco più di dieci anni, Ladislao; la madre Margherita mandava come ambasciatore Carlo Dentice dal papa Urbano, per chiedere, dimenticando le offese di Carlo, la sua protezione per il  bambino e per il regno; il papa nominava come Confaloniere, Ramondello Orsini e con il nunzio, vescovo di Monopoli, mandava per sostegno di Ladislao, ventimila ducati.

Intanto Margherita prendeva le redini del governo, facendo favoritismi che non erano accettati dai nobili e dal popolo, che creavano una nuova magistratura detta degli Otto signori, per vigilare sulle estorsioni compiute dai ministri regi; sebbene questa magistratura fosse dispiaciuta alla regina, ognuno di costoro, giornalmente, assisteva ai tribunali, per impedire violenze e abusi da parte dei ministri.

Ma i mali del regno non erano terminati in quanto, ad Avignone, presso il papa Clemente V, con la madre Maria, si trovava il figlio di Luigi d’Angiò, adottato da Giovanna, anch’egli Luigi (II), che chiedeva al papa di concederle il baliato (che preludeva alla investitura del regno alla maggiore età); e il papa concedeva la bolla (1385).   

Giunta la notizia a Tommaso Sanseverino, Gran Contestabile del regno, che era stato legato a Luigi d’Angiò e riconosceva segretamente l’antipapa Clemente, egli si appropriava del titolo di viceré di Luigi II d’Angiò e approfittando dei torbidi di  Napoli, convocava in Ascoli un parlamento di baroni di Napoli che, a somiglianza degli “Otto”, nominavano “Sei” deputati del regno, a cui si sarebbe unita la gente armata, nella città di Montefuscoli.

Nello spazio di due mesi, si riunivano quattromila cavalieri e duemila fanti che si accampavano presso la città di Aversa a due miglia da Napoli, da dove mandavano Pier della Mendolea, per sentire se gli “Otto” volessero acclamare Luigi. Ma essi risposero che non intendevano venir meno alla fede data a Ladislao, offrendo a Margherita la difesa della città.

Era il mese di settembre e gli accampati ad Aversa impedivano non solo che giungessero i viveri e la frutta, ma impedivano la vendemmia, per cui quelli della città incominciarono a tumultuare recandosi al palazzo della città, posto nel campanile della chiesa di san Lorenzo,  protestando presso i deputati degli “Otto”, che per acquietarli si impegnarono a chiedere agli avversari, una tregua.

Ma la regina che odiava gli “Otto”, intendeva farli trucidare dal popolo e si era rivolta all’arcivescovo Niccolò Guindazzo e all’abate Sanseverino e altri religiosi; ma questa voce si era sparsa tra il popolo e costoro furono sopraffatti.  

I torbidi non si esaurirono in quanto la regina era stata avvertita che giungeva in suo aiuto, Ramondello Orsini, che si trovava a Capua; ma la regina, non pensando più agli “Otto”, si rivoltava contro i cavalieri della parte angioina, mentre era avvertita che in aiuto del Sanseverino erano giunte due galee con venticinquemila fiorini mandati da Luigi II; per cui, spaventata, si ritirava col figlio Ladislao, in Gaeta.

La regina pensava al modo di ristabilirsi nel regno e alcuni mercanti le avevano parlato di Manfredi Chiaromonte, conte di Modica, della potente famiglia di Sicilia che aveva appena acquistato l’isola di Gerba, da cui ricavava grandi ricchezze, che aveva una figlia di dieci anni di nome Costanza, che poteva esser presa in moglie da Ladislao.

La regina mandava subito in Sicilia il conte di Celano e Bernardo Guastaferro, per trattare il matrimonio e Chiaromonte mandava la figlia Costanza a Gaeta, accompagnata da molti suoi parenti che portavano una ricca dote, gioie, argenti e tappezzerie di estremo valore; appena terminati i festeggiamenti del matrimonio, il papa Urbano VI moriva (1389) ed era eletto Pier Tomacello, col nome di Bonifacio IX; il nuovo papa, l’anno seguente (1390), concedeva a Ladislao l’investitura del regno e mandava il cardinale di Firenze per l’incoronazione, che ebbe luogo il mese di maggio a Gaeta.

A Napoli infatti vi era monsignor Mongioja che con la carica di viceré rappresentava, per conto del papa Clemente, Luigi II d’Angiò, il quale però si era alienato le simpatie dei napoletani per i suoi modi superbi di comportarsi; essi avevano incaricato Baldassar Cossa, futuro papa, di recarsi dal papa Clemente, perché Luigi  fosse mandato a  Napoli, altrimenti Mongioja gli avrebbe fatto perdere il regno.

Luigi si imbarcava con un’armata di venti navi a Marsiglia,  giungendo il 14 agosto dopo aver subito una tempesta, nella chiesa di santa Caterina e, con gran concorso di nobili e popolo, gli venivano offerte le chiavi della città; fu accompagnato con gran baldacchino da otto signori dei cinque Sedili a Castel Capuano, dove il giorno seguente riceveva l’omaggio di molti baroni e di Tommaso Sanseverino che aveva al suo seguito milleottocento uomini a cavallo.

Luigi convocava nella chiesa di santa Chiara un parlamento che a richiesta di Ugo Sanseverino, stabiliva che si dovessero mantenere a spese dei baroni e del popolo il servizio di dieci galere e mille uomini armati. In proposito il Costanzo commentava che si parlava di un numero di mille cavalieri, quando in tutto il regno non si poteva metterne insieme neanche per fare una giostra !                   

Mentre a Napoli si verificavano questi avvenimenti, la regina Margherita, con l’avvenuto matrimonio di Ladislao, disponendo di grosse somme di danaro, aveva chiamato a Gaeta i principali baroni,  ai quali comunicava di voler scacciare Luigi dal regno; ma era prevalsa l’idea di andare ad assaltare i seguaci dei Sanseverino, che per i loro grandi feudi costituivano l’appoggio di Luigi.

L’esercito di Ladislao, era comandato dal principe Ottone di Brunswick, che recatosi in Puglia, ad Ascoli era stato sorpreso e disfatto da Tommaso Sanseverino, il quale però, non aveva saputo usufruire della vittoria, in quanto aveva liberato i principali baroni col riscatto, quando avrebbe potuto scacciare Ladislao dal regno (Brunswick moriva nel 1392 ed era sepolto a Foggia).

Anche la fortuna avuta da Margherita con il matrimonio di Ladislao con Costanza Chiaromonte precipitava; moriva infatti il padre Manfredi Chiaromonte (1390).

In Sicilia moriva il re Federico III d’Aragona, che lasciava una piccola figlia, Maria, presa in moglie dal duca Martino di Monblanco, fratello di Giovanni d’Aragona; costui, si era recato con una grossa armata in Sicilia e si impadroniva di Palermo e della Sicilia, togliendo tutte le ricchezze ai Chiaromonte; per di più il padre di Martino, aveva come amante la vedova di Manfredi Chiaromonte, per cui Margherita, o perché avesse ritenuto poco onorevole che il figlio avesse per moglie la figlia di una concubina o forse per la situazione che si era creata, avesse ritenuto dargli un’altra moglie, indusse Ladislao a recarsi a Roma a chiedere al pontefice la dispensa per ripudiare Costanza. Ladislao non solo otteneva dal pontefice la dispensa per il divorzio, ma anche una buona quantità di danaro per far la guerra a Luigi.

Ritornato Ladislao a Gaeta, la domenica si era recato con l’infelice  Costanza, che pensava di andare a messa, al vescovato, e si sentiva leggere la bolla di divorzio del papa vedendosi privata degli onori di regina e accompagnata da una donna vecchia e due damigelle, in una casa privata, dove le mandavano ogni giorno da mangiare.

Ladislao non aveva mancato di avvertire i suoi baroni di tenersi pronti per la guerra, per  la prossima primavera;  ma egli disponeva di tremila cavalieri e milleseicento fanti con i quali non poteva mettere sotto assedio Napoli, sottomessa a Luigi, ma la sola città dell’Aquila, dove si diresse (nel luglio 1293) ben accolto dalle  popolazioni degli Abruzzi. Gli aquilani, non potendogli resistere, gli offrirono quarantamila ducati e Ladislao se ne tornava a Gaeta licenziando i baroni.

Si era preparato, per l’anno successivo  (1394) all’assedio di Napoli, ma, nel bere vino,  era stato colto da malessere ed era corsa voce di un avvelenamento e il suo coppiere Gola di Fulco era morto alla stessa maniera; Ladislao era stato vicino alla morte, era guarito ma era rimasto balbuziente per tutta la vita.

Collenuccio riporta il fatto in maniera diversa, dicendo che balbettava dalla giovinezza, per essergli stato dato un veleno per il quale era stato in pericolo di vita; si curava mettendosi nel corpo dei muli, ai quali erano state tolte le interiora, perché quel caldo avrebbe fatto risolvere quel veleno. 

Ladislao, scriveva Collenuccio, per il timore di essere avvelenato, indossava abiti modesti e si recava negli alloggiamenti dei soldati a mangiare il loro cibo rusticano, senza alcun fasto o pompa regale.  

Luigi d’Angiò, non potendo fare affidamento sui soccorsi francesi, era propenso alle trattative e aveva mandato il vescovo monsignor di Murles da Ladislao, per chiedere la pace; proponendo il matrimonio con la sorella di Ladislao e che ognuno sarebbe rimasto nel possesso di quanto posseduto, con restituzione dei beni ai napoletani e non ai baroni, che avevano militato contro di lui.        

Queste richieste non furono accettate da Ladislao in quanto Luigi possedeva solo una piccolissima parte del regno e non avrebbe avuto modo di beneficare i baroni che lo avevano servito, per cui monsignor Murles se ne tornava senza aver nulla concluso e riferendo tutto ciò che era stato detto. Luigi, scosso da quanto gli era stato riferito, aveva pensato alla guerra e rivolgendosi ai seguaci dei Sanseverino era messa sotto assedio Aversa, che appoggiava Ladislao.

La città resistette per tutta l’estate ma giunto l’inverno, il Contestabile Tommaso Sanseverino che comandava l’esercito, pur togliendo l’assedio, fece in modo che gli abitanti non potessero coltivare i terreni; mentre Ladislao, accompagnato dal duca di Sessa, Marzano, e altri baroni, si recava a Roma, dal papa Bonifacio IX, per chiedere soccorso e per ben disporlo, donava ai suoi nipoti le contee di Sora e di Avito e il papa soddisfatto gli concedeva gran quantità di danaro, ciò che fecero anche i cardinali più ricchi che speravano di avere delle investiture per i loro parenti; e Ladislao tornava  carico di danaro per affrontare la  guerra in primavera.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MENTRE LADISLAO

RAFFORZA

LA SUA POSIZIONE

LO SCISMA

PROSEGUE

CON L’ELEZIONE

DI PAPI E ANTIPAPI

 

 

 

L

adislao, sempre sul piede di guerra, tentava (1395) un altro assedio di Napoli accampandosi a un miglio di distanza, in località Ogliuolo (attuale Poggioreale) con tre galee nel mare, mandatigli dal papa Bonifacio IX; ma, non avendo questo assedio alcun esito, si ritirava a Gaeta.

Tommaso Sanseverino suggeriva a Luigi d’Angiò di sposare la figlia di Marzano, duca di Sessa, che aveva feudi che circondavano Gaeta, per tirarlo dalla sua parte e aveva ottenuto conferma, quando Ladislao, venutone a conoscenza, mandava gente ad occupare le terre del duca, il quale, costernato riusciva, ad ottenere un anno di tregua senza procedere al matrimonio.  

Ladislao, probabilmente preso da scrupolo di coscienza, si ricordava della moglie Costanza ripudiata e abbandonata e da tutti amata e compianta, e la faceva sposare dal conte di Capua, Andrea d’Altavilla, suo familiare;  Costanza, commovendo gli astanti e lo stesso Andrea, gli diceva: Andrea di Capua, puoi ritenerti il più avventurato cavaliere del regno, per avere per concubina la legittima moglie del re Ladislao tuo signore.       Ladislao, dopo aver ridotto alla sua obbedienza il duca Marzano di Sessa, (1397), nell’anno successivo stringeva ancora d’assedio per mare e per terra Napoli. Luigi che vi era rinchiuso, poiché cresceva la fame e non riusciva ad avere aiuti da Sanseverino e dal duca di Venosa (figlio di Sanseverino), decise di ritirarsi nel principato di Taranto. Egli aveva mandato Barnabò Sanseverino ad Avignone per chiedere soccorsi al papa Clemente il quale gli concedeva di assoldare sei galee che giungevano a Napoli, dove i capitani, saputo che Luigi si stava recando a Taranto, facevano rotta per quella città.

Qui, Luigi, al suo arrivo, aveva trovato Ramondello Orsini che si era investito del principato; rimasto affranto dal dolore, egli s’imbarcava e  annunciava a Ladislao la sua partenza, chiedendogli di liberare il fratello Carlo, con i francesi che erano tenuti prigionieri in Castelnuovo; ciò che fu subito accordato e i due fratelli si ritiravano in Provenza.

Ramondello Orsini a Taranto, come già accennato, si era investito del titolo di principe, senza prestare giuramento a Ladislao, il quale vi si stava recando con l’esercito, per togliergli il feudo; Ramondello con le sue truppe gli era andato incontro e giunto a Canosa, staccatosi dalla truppa con il suo stendardo, si presentava a Ladislao facendo abbassare lo stendardo, mentre egli, sceso da cavallo, andava a baciargli la mano, dicendogli che “le sue armi valessero con i nemici di sua maestà e che poneva nelle sue mani tutto il suo esercito”.

Così pacificato, Ladislao, ritornava a Napoli, dove gli giungeva un’ambasciata del duca Guglielmo d’Asburgo, che gli chiedeva la mano della sorella Giovanna e questa era accettata.

Prima che Giovanna fosse mandata ai confini dell’Austria, Ladislao sposava Maria, sorella di Giano, re di Cipro e poi si imbarcava a Manfredonia per accompagnare la sorella dai baroni, mandati dal duca d’Austria; egli approfittava del viaggio, per appropriarsi della  città di Zara, appartenente al regno d’Ungheria (avendo in animo di conquistare questo regno), dopodiché si recava dalla nuova moglie a Napoli con la quale poteva convivere poco tempo,  per la sua improvvisa morte (1404).

Ladislao, sicuro finalmente del regno, aveva dovuto recarsi in Calabria in quanto un esponente della casa Ruffo parteggiava ancora per Luigi d’Angiò; al ritorno, maturava la sua vendetta contro Tommaso Sanseverino che aveva anche lui sostenuto Luigi d’Angiò e lo faceva strangolare con il figlio, duca di Venosa e Gasparre conte di Matera, facendo buttare i loro corpi nel fossato di Castelnuovo, in pasto ai cani.

In questo periodo (1404) moriva anche il papa, Bonifacio IX,  ed era eletto il nuovo papa, Cosimo Migliorato di Sulmona che prendeva il nome di Innocenzo VII.

Ladislao dopo essersi vendicato con i Sanseverino, sostenitori di Luigi d’Angiò, passava a vendicarsi, per lo stesso motivo, dei Marzano; il duca di Sessa era morto e aveva lasciato un figlio fanciullo, sotto la tutela del conte d’Alife, che aveva una figlia, al quale Ladislao proponeva il matrimonio di questa figlia con un suo figlio bastardo, nominato principe di Capua, che il conte accettava; alle nozze partecipava la vedova del duca Marzano con il figlio bambino che Ladislao faceva imprigionare a Casteluovo; con l’eliminazione dei Sanseverino e Marzano, i feudi di costoro li distribuiva tra i baroni che l’avevano  servito.

Nel frattempo moriva Ramondello Orsini principe di Taranto e Ladislao, nell’intento di appropriarsi del principato, aveva occupato quelle terre e aveva pensato al matrimonio con la principessa, che pur avendo quarant’anni e dei  figlioletti piccoli, era ancora bella. Aveva mandato Gentile Martorano per proporre il matrimonio e la principessa aveva accettato la proposta, nonostante il parere contrario dei Sanseverino; egli quindi, si recava a Taranto, dove si svolgevano i festeggiamenti del matrimonio; dopo i festeggiamenti, volendo Ladislao visitare quelle terre, mandava la regina a Castelnuovo; qui la novella sposa si trovava di fronte alla sorpresa di  due altre conviventi del re; una di queste era la figlia del duca di Sessa, l’altra, chiamata “contessella”, con cui la nuova regina era obbligata a convivere.

In questo tempo, era morta la regina Maria d’Ungheria e gli ungheresi che  non soffrivano il regno di Sigismondo e lo avevano imprigionato, si erano rivolti a Ladislao al quale avevano offerto il regno.

Ladislao, avido di regni, era subito partito e imbarcatosi a Manfredonia, era  tornato a Zara, quando gli giungeva la notizia che Stanislao si era liberato dal carcere e stava raccogliendo un grosso esercito, per cui, vendeva Zara ai veneziani e, soprggiunto  Sigismondo,  firmava con lui la pace e se ne tornava a Napoli; era questo il motivo che sia lui, sia Giovanna, nei documenti, aggiungevano il titolo del  regno  d’Ungheria.

Era il periodo dello scisma della Chiesa con un papa, Clemente VII, ad Avignone e un papa, Bonifacio IX a Roma; in Francia interveniva il re Carlo VI, con consulto dell’Università di Parigi, per la sua cessazione, suggerendo ad ambedue i papi di dimettersi;  Clemente VII, che non poteva opporsi al volere del re, per il dispiacere moriva (1394).

I cardinali che si trovavano ad Avignone, riuniti, contro la volontà del re, eleggevano il cardinale aragonese Pietro di Luna, col nome di Benedetto XIII (1394-1423); a Roma era eletto (1404) Innocenzo VII che moriva (1406), ed era eletto il papa Gregorio XII (1406-1415). Prima della sua elezione i cardinali avevano concordato che il nuovo  papa  avrebbe rinunciato, come, anche il papa Benedetto XIII avrebbe rinunciato ad Avignone, per eleggerne insieme un altro; ciò per porre fine allo scisma.

Ma la rinuncia non ebbe luogo, per l’ostinazione di Gregorio XII, e mentre Benedetto XIII si ritirava nella sua patria in Aragona, mantenendo il titolo papale; era convocato il concilio di Pisa (1408) che aveva una numerosa partecipazione; ma era eletto un altro antipapa, Alessandro V (1409); questo antipapa era riconosciuto da tutti (ad esclusione dell’Aragona che riconosceva il suo papa, Benedetto XIII), il quale era contrario a Ladislao e riconosceva come re, Luigi d’Angiò.

Ladislao, aveva mandato quattro galee a prendere Gregorio XII, il quale accompagnato da due cardinali era stato portato con tutti gli onori a Gaeta, mentre Luigi d’Angiò faceva portare Alessandro V,  da Avignone a Pisa, da dove questo lanciava la scomunica a Ladislao.

Intanto, il papa Alessandro V moriva (1410), ed era subito sostituito dal nuovo papa, Giovanni XXIII, il napoletano Baldassar Cossa, anch’egli favorevole a Luigi;  egli si trovava a Bologna dove Luigi si era recato a riverirlo, ricevendo danaro per assoldare galee genovesi.

Ladislao, venutone a conoscenza, si recava a Roma, con numeroso esercito, col pretesto di volerla occupare per il papa Gregorio XII, che si trovava a Gaeta, lasciando  il comando a Perretto d’Ibreja, conte di Troia e Gentile Martorano con tremila uomini, e portando con sé gli altri per fortificare la frontiera del suo regno.

Ma a Roma giungeva Luigi che scacciava il conte di Troia e si impadroniva di Gaeta, scontrandosi con l’esercito di Ladislao a Rocca Secca e costringendo Ladislao a ritirarsi. Luigi avrebbe potuto proseguire e conquistare il regno ma privo di danaro e non potendo pagare i soldati, moriva (1412) lasciando tre figli; e Ladislao poteva godersi il regno.

Egli pensò di vendicarsi di Giovanni XXIII, invadendo nuovamente lo Stato della Chiesa, ma Giovanni, dovendo recarsi in concilio, aveva chiesto per mezzo del cardinale Brancaccio di Napoli, di pacificarsi, con la liberazione dal carcere di alcuni suoi parenti imprigionati e  col pagamento di ottantamila fiorini.

Moriva in quest’epoca, la regina Margherita, madre di Ladislao (1412), il quale rompeva nuovamente, quanto inutilmente, la pace con il papa, rioccupando Roma (1413), senza risultato.

Vi era stato un insolito modo di avvelenarlo; Ladislao aveva come concubina la figlia di un medico di Perugia, che per salvaguardare la figlia aveva suggerito l’avvelenamento  ungendo i genitali della ragazza, con un’unzione pestifera, che gli avrebbe procurato un maggior diletto, che non avrebbe fatto dimenticare al principe quell’amore.

Ladislao, così imbevuto, aveva incominciato ad essere travagliato dal mortifero e lento veleno; decise di imbarcarsi a Ostia per andare curarsi a Napoli, portando con sé due prigionieri, Paolo e Orso Orsini, sospettati dell’avvelenamento, che aveva fatto incarcerare.

Giunto a Napoli, era condotto in lettiga a Castenuovo, dove moriva il 6 agosto del 1414; era vissuto trentanove anni e aveva incominciato a regnare a dieci, vissuti quasi tutti sul piede di guerra, senza grandi conclusioni, ma aveva dato sfogo, come si è visto, alla sua carica erotica che, evidentemente, serpeggiava in famiglia; non avendo figli maschi, gli succedeva la sorella Giovanna, che, alla morte del marito, come abbiamo visto, Ladislao aveva fatto tornare dall’Austria.

 

 

 

VICISSITUDINI

DEL REGNO

DI GIOVANNA II

 

 

 

A

Napoli si era recato Attendolo Sforza, che era stato capitano di Ladislao, un bell’uomo dal fisico prestante, assunto dalla regina al suo servizio.  

La regina, aveva come amante Pandolfello Piscopo, detto Alopo (calvo), fin da quando era in vita Ladislao; ma il rapporto era stato tenuto nel massimo segreto, per non portarlo a conoscenza del fratello, perché di bassa condizione (da alcuni ritenuto coppiere da altri scudiero); ma alla morte di Ladislao, Pandolfello, che non aveva più di ventisei anni, era stato elevato alla carica di conte Camerlengo e Gran Siniscalco, con grande sdegno dei baroni.

Pandolfello, conoscendo la debolezza sensuale della regina, se n’era ingelosito e le aveva riferito che Sforza fosse sostenitore dei d’Angiò e stesse aumentando il numero dei soldati, per impadronirsi di Napoli; trovando così il modo per farlo arrestare Sforza fu messo in carcere, dove si trovava l’altro capitano, Paolo Orsino.

I baroni, gelosi del potere raggiunto da Pandolfello, si erano rivoltati con la regina, assicurandola che Sforza fosse valente e meritevole capitano, e il regno sarebbe caduto in grande sciagura se i suoi  soldati si fossero collegati con quelli di Orsino, per liberare i loro capitani; ma ottenevano per risposta dalla regina, che avrebbe fatto esaminare il caso da un giurisperito.   

Giovanna II, nello stesso tempo, era stata spinta dai baroni a prendere marito per aver prole e salvare il regno dalle varie rivendicazioni; le era stato sottoposto il figlio di Ferrante d’Aragona, re di Sicilia, che avrebbe potuto prestarle aiuto in caso di bisogno; aveva quindi mandato un’ambasciata per il matrimonio col figlio; ma al ritorno le riferivano  l’età del giovane principe, che aveva appena superato i diciotto anni, mentre lei aveva superato i quaranta e l’idea di questo matrimonio era saltata.

Si faceva quindi ricorso al conte Giacomo di Borbone-La Marche, vedovo di Beatrice di Navarra, del sangue reale di Francia, il quale era ritenuto innocuo e avrebbe potuto subire le disposizioni di Giovanna.

Pandolfello, ritenendo che questo matrimonio potesse provocare la sua rovina, aveva cercato di correre i ripari e non solo aveva fatto rientrare Sforza nelle grazie della regina, ma gli aveva fatto sposare la sorella Caterina (Catella) con una ricca dote e la  nomina di  Contestabile.

Ma i baroni e ministri non accettavano che il coppiere potesse avere tanto  potere sulla regina,  e ritennero di far ricorso al conte Giacomo, che doveva sbarcare a Manfredonia, dove molti si recarono ad accoglierlo, guidati dal duca Giulio Cesare di Capua, che odiava la potenza di Pandolfello e di Sforza; il duca di Capua incontrava a Troja e lo avvertiva del pericolo che correva, di finire strangolato come Andrea, lasciando Giacomo  sorpreso per ciò che gli era stato riferito.

Il giorno seguente, quando Giacomo era giunto a Benevento, vi si era recato Sforza per portargli i saluti della regina, dicendogli, con eloquenza rustica e militare: “Illustrissimo conte, la regina, vostra moglie si rallegra della vostra venuta  e vi aspetta con gran desiderio”.  

Il re con mal viso, non rispose;  Sforza infatti aveva commesso una duplice infrazione di protocollo; prima perché non era sceso da cavallo e poi perché lo aveva chiamato conte, mentre tutti gli altri nobili lo avevano trattato da re;  alla destra di Giuliano erano il conte di Troja e il conte di Sant’Angiolo, che si stavano allargando per far spazio a Sforza, ma Giacomo gli aveva detto di  non muoversi, non lasciando così spazio, per farlo avvicinare a lui;  quindi, Giacomo, sdegnato, si recava al castello di Benevento, dove lo avevano seguito tutti i cavalieri, per baciargli la mano come re.

Sforza stava salendo le scale e Capua lo rimproverava per il suo ardire, e di non essere sceso da cavallo per salutarlo come re, come avevano fatto gli altri baroni; ambedue si alteravano, mettendo mano alle spade; mentre gli altri cercavano di spartirli, era  sopraggiunto il conte di Troja, gran Siniscalco  della casa reale, che aveva la potestà di punire gli insulti, che li faceva mettere in sicurezza; ma la sera, mentre Capua era liberato, Sforza era messo in carcere.

Giovanna era stata informata di tutto e il giorno seguente dovendo Giacomo entrare in Napoli, dispose che fosse accolto con un ricco baldacchino, come avvenne, ricevuto a Castelnuovo, da Pandolfello e dagli ufficiali della regina; e, trovandosi anche l’arcivescovo con i paramenti sacri, celebrava il loro matrimonio che era festeggiato pomposamente con cena e balli, e gli sposi salutati con le grida: “Viva il re Giacomo e la regina Giovanna nostri signori” (1415).

A Giacomo era mantenuto il titolo di conte, sebbene gli fosse stato dato l’incarico di Governatore generale del regno; la mattina seguente, quando tutti credevano di vedere gli sposi allegri, si notava che erano turbati, e dagli effetti, si resero conto del motivo. Pandolfello era stato condotto a Castel dell’Ovo e, avendogli fatto confessare sotto tortura i suoi delitti, era stato decapitato in Piazza Mercato e il suo corpo era stato trascinato per la città e appeso per i piedi.

Nella Corte, tutti i cortigiani furono sostituiti da francesi, con a capo un vecchio signore, Lavardin, che non faceva comunicare con nessuno; ma quanto aveva rallegrato molti della fine di Pandolfello, tanto aveva contristato il loro animo nel vedere la sorte della regina, e ancor più il poco conto che di essi faceva Giacomo, che aveva affidato i principali uffici di Gran Contestabile, Gran Camerario, Gran Siniscalco, ai francesi; più di tutti, era rimasto sdegnato Giulio Cesare di Capua, che per i servizi che aveva reso, pensava di essere gratificato con un incarico che non gli era stato concesso.

Erano passati tre mesi senza che i nobili e baroni, avessero potuto vedere la regina e si erano recati in frotta per chiedere a Lavardin di volerla vedere; ma quegli rispose che la regina era impedita con il re; e il popolo rumoreggiava, e per quietarlo, Giacomo usciva con volto allegro, dicendo che la regina stava poco bene che se si desiderava qualche grazia, sarebbe stata concessa; il popolo aveva risposto che voleva che fosse ben trattata; il  re non mancò di rispondere che per loro amore, sarebbe stata ben trattata.

Giulio Cesare di Capua che era molto sdegnato con Giacomo, aveva pensato di procurarsi la sua fiducia e si era offerto di ammazzarlo e liberarla dalla schiavitù in cui era stata ridotta; ma la regina, memore che era stato il primo motore dei suoi danni, aveva finto di accettare e aveva riferito tutto al re per renderselo benevolo.

La richiesta di rivederla era stata accolta e Capua si era recato per ripeterle la fatale offerta, ma Giacomo era nascosto sotto il letto e dopo aver sentito dalla bocca di Capua la sua proposta e il modo di eseguirla, mentre Capua accompagnato dal suo segretario, stava uscendo dal castello, Giacomo ordinava di arrestarli e furono immediatamente decapitati in Piazza del Mercato.

 

 

 

GIOVANNA II

LIBERATA

 DALLA SCHIAVITU’ DI

GIACOMO   CADE  

NELLE MANI DI

SERGIANNI CARACCIOLO

 

 

 

I

l re Giacomo non aveva tralasciato di tener rinchiusa la regina, alienandosi maggiormente la diffidenza dei baroni; tutto ciò avveniva nell’anno 1416; ma nel mese di settembre Giovanna aveva avuto il permesso di uscire, per desinare nel giardino di un mercante fiorentino (che si trovava dove successivamente sarebbe sorta S. Maria della Scala).

Essendo  la circostanza, venuta a conoscenza del popolo e dei nobili, tutti si erano recati, in folla, per salutarla; ma era stato notato che la regina aveva le lacrime agli occhi  e Ottino Caracciolo e Annecchino Mormile, gentiluomini di Portanova, con altri, decisero di liberarla dalle mani del re.

Mentre Giovanna era accompagnata con un carro (non vi erano ancora le carrozze), per tornare al Castello, ordinarono  al carrettiere di prendere la via dell’arcivescovado, dove fu condotta al grido di “viva la regina”; e lei aveva detto loro: “miei fedeli, non mi abbandonate, che pongo il regno e la mia vita nelle vostre mani”. Giacomo, avvertito, aveva  cominciato a temere per la sua vita, si era ritirato a Castel dell’Ovo, ma poi era stato portato a Castel Capuano, dove la regina aveva ricostituito la sua nuova Corte.

Giovanna II aveva messo gli occhi addosso a Sergianni Caracciolo, nominato gran Siniscalco, che aveva più di quarant’anni, ma era bellissimo e gagliardo di persona, cavaliere di gran prudenza; capo del Consiglio di Giustizia, era stato nominato il dottor Marino Boffa, gentiluomo di Pozzuoli, facendolo sposare con Giovannella Stendardo, proprietaria di molte terre; e nominato gran Camerlengo,  il conte di Fondi della casa Gaetani.

La Corte era riempita di giovani belli e valorosi, tra i quali si distinguevano  Urbano Origlia e Artuso Pappacoda; Sforza era stato liberato dalla prigione e gli era restituito l’incarico di Contestabile; Giovanna essendo innamorata di Sergianni, per poterselo godere a suo modo, ogni giorno pensava a come liberarsi del re.

Sergianni, prudentemente le aveva sconsigliato di evitare di usare la violenza, in quanto in questo caso si sarebbe commossa tutta Napoli e lo avrebbe aiutato, e che occorreva beneficare i presidenti dei Seggi, in modo  che dimenticassero di andare a liberare il re;   la regina provvide a distribuire uffici ai presidenti dei Seggi e ai capi del popolo.

Ma, mentre in città erano contenti, Ottino Caracciolo e Annecchino Mormile erano pieni di sdegno e dispetto, lamentando che la regina, che essi avevano liberato dalla servitù, si fosse dimenticata di loro; mentre aveva donato a Ottino, la contea di Nicastro, ciò che aveva fatto venire ad Annechino, maggior rabbia.

Sergianni era invece geloso di Sforza, che aveva ottenuto una maggior dignità e potenza e, stando a Corte, poteva superarlo nei consigli dati alla regina, la cui lascivia gli faceva sospettare ben altro; e aveva cercato di allontanarlo, approfittando di un’occasione che gli aveva offerto Braccio di Montone.

Castel Sant’Angelo a Roma, era tenuto sotto le bandiere della regina e sotto la custodia di Braccio di Montone, che era in difficoltà, e Sergianni aveva proposto al Consiglio, di mandare Sforza a soccorrerlo e così fu disposto. Tolto di mezzo Sforza, vi era Urbano Origlia che per la sua bellezza e valore ogni giorno saliva di più nelle grazie della regina, che lo aveva mandato come ambasciatore, per rappresentarla a Costanza, dove si teneva il Concilio sullo scisma e dove, alla presenza dell’imperatore, erano rappresentati tutti i principi cristiani.

Sergianni, rimasto padrone della casa della regina, intendeva essere padrone anche della regina, e una sera che stavano cenando con il re, gli aveva chiesto di cacciare dal regno tutti i francesi; il re gli aveva risposto che bisognava pagarli per il servizio reso, per averlo seguito dalla Francia; a Sergianni si era unita la regina, che aveva chiesto, in modo imperioso, di cacciarli.

Il re, non potendo soffrire tanta insolenza, si alzava da tavola, recandosi nella sua camera, dove la regina poneva degli uomini di guardia. Il giorno seguente la regina emetteva un bando, disponendo che i francesi lasciassero il regno entro otto giorni; i francesi vedendo che il re era prigioniero, se ne andarono subito.

Il regno e la regina rimanevano nelle mani di Sergianni, il quale faceva restituire la carica di Giustiziere al conte di Nola, al quale dava in moglie senza dote, la sorella; un’altra sorella la faceva sposare al conte di Sarno.

Tutto questo modo di spadroneggiare di Sergianni, aveva suscitato grande invidia nei baroni e grande infamia della regina, specialmente di quelli che parteggiavano per i Durazzo ed erano stati beneficati da Carlo III e Ladislao; “e andavano pubblicamente mormorando che un re innocente non doveva esser prigioniero nella stessa casa dove l’adultero  giaceva con la moglie”  

Sergianni, essendo il più saggio e prudente di quel tempo, faceva distribuire le pensioni che in precedenza erano state versate ai francesi, ai gentiluomini e ai capi delle Piazze; e per tener buona la plebe, pronta a creare tumulti, con denari della regina, aveva procurato vettovaglie, vendute a basso prezzo; ma, suo malgrado, Sforza era tornato malsoddisfatto, facendo gridare “Viva la regina e muoia il falso consiglio”, in quanto il problema sorto a Roma a Castel Sant’Angelo, era stato dovuto alla circostanza che Sergianni, ad arte, non aveva mandato a tempo debito, le paghe dovute ai  soldati, per farli passare dalla parte di Braccio che lo aveva messo sotto assedio.

Nel frattempo era eletto papa Martino V, Oddone Colonna (1417-1431), e la regina, mandava dal nuovo papa, per congratularsi della nomina, i legati Belforte Spinelli di Giovinazzo, vescovo di Cassano e Lorenzo Teologo, vescovo di Tricarico, promettendogli la donazione di Castel Sant’Angelo e Ostia e Civitavecchia (che erano conquiste fatte da Ladislao). Al papa si erano rivolti i francesi, chiedendo la liberazione di re Giacomo  e il papa aveva mandato dalla regina, Urbano Origlia, accompagnato dal fratello Giacomo e dal nipote Antonio Colonna per trattare la liberazione di Giacomo, richiesta dal re di Francia.

Sergianni, temendo che con la liberazione di Giacomo, tornando ad essere re, gli  facesse fare la stessa fine di Pandolfello, indusse la regina a richiedere di essere solo lei incoronata dal legato del papa, concedendo al fratello del papa il ducato di Amalfi e al nipote, il principato di Salerno e per moglie Maria Ruffo, marchesa di Cotrone e contessa di Catanzaro.

Il papa, in questo periodo, si era recato a Firenze (1418) ove la regina mandava Sergianni, accompagnato da Antonio Colonna, per promettergli la restituzione delle conquiste del fratello Ladislao in cambio della sua incoronazione e investitura del regno, che il  papa Giovanni XXIII (scismatico)  gliel’aveva differita.

Sergianni, in questa occasione, chiedeva e otteneva dalla regina, per la moglie, la celebre “Prammatica, detta Filangiera”, dal suo nome, Caterina Filangieri, riguardante il diritto feudale di poter succedere ai fratelli del marito, qualora essi venissero a mancare senza figli maschi.  

Con il nuovo anno, (1419), nel mese di gennaio giungeva a Napoli il legato del papa per incoronarla, accompagnato dal fratello Gennaro Colonna e nipote Antonio; Sergianni si rendeva conto che il legato oltre all’incoronazione, avrebbe provveduto anche alla liberazione di Giacomo, come avvenne; i seguaci dei Colonna, infatti, lo prelevarono dov’era rinchiuso, e lo condussero cavalcando per tutta la città, riportandolo in Castel Capuano; Giacomo, ritenendo di non poter vivere dove viveva la regina e tornava in libertà, senza mantenere il potere e senza autorità, si imbarcava su una nave di genovesi  recandosi a Taranto, da Maria vedova di Ladislao che lo faceva poi trasportare in Francia; qui Giacomo si ritirava nel convento di Besançon  facendosi  francescano e morendo da monaco.

La regina il 2 di ottobre 1419 era stata pomposamente coronata dal legato in Castelnuovo, facendogli leggere la bolla dell’investitura concessa dal papa Martino V (che aveva  escluso il titolo di Regina di Roma, chiesto da Giovanna), accompagnata dal giuramento di omaggio e fedeltà dei napoletani, con festeggiamenti che si protrassero fino all’ultima domenica di dicembre.

Sergianni, aveva ottenuto ciò che desiderava e si vendicava, per esser dovuto andare in esilio, togliendo pensioni e incarichi a chi li aveva in quel momento, per  concederli a suoi sostenitori. Egli quindi si imbarcava, recandosi a Gaeta, da dove scriveva alla regina,  dandosi per pretesto malato; ma Giovanna ardeva dal desiderio di vederlo e lo fece andare a Napoli, ricevendolo con grande amore e creandolo gran Siniscalco. 

 

 

 

MORTE DEI DUE GRANDI

CAPITANI DI VENTURA

ATTENDOLO SFORZA E

BRACCIO DA MONTONE

 

 

 

S

ergianni, gran Siniscalco, era rimasto arbitro del governo: gli mancava solo il titolo di re; l’unico a poterlo contrastare era Sforza, che era stato mandato a Roma per contrastare Braccio di Montone, che stava tiranneggiando lo Stato della Chiesa.

Sforza aveva richiesto danaro alla regina, ma Sergianni, che avrebbe dovuto provvedere a mandarglielo, deliberatamente non l’aveva fatto per metterlo in difficoltà; e Sforza, per mezzo del suo segretario, aveva chiamato dalla Francia, Luigi d’Angiò, figlio di Luigi II, facendogli sapere che i baroni mal sopportavano la tirannia di Sergianni.

Ai primi del 1419 (come era stato scritto), Giovanna, benché tanto dedita alla libidine, non avesse mancato di badare alla giustizia e aveva pubblicato la compilazione dei Riti della Gran Corte della Vicaria, che aveva fatto riordinare dai migliori giuristi del tempo. 

Intanto, Luigi  faceva sapere di accettare (1420) e, non solo mandava a Sforza il privilegio di viceré e la nomina di gran Siniscalco del regno, ma si preparava a venire in Italia con un grosso esercito;  mentre Sforza rimandava alla regina il suo stendardo e il bastone del suo generalato, sostituiti con quelli di Luigi III d’Angiò con l’invito al popolo a passare dalla sua parte e a quella del suo esercito.

Luigi, ben presto giungeva sotto le mura di Napoli e, unito a Sforza, impedivano che vi entrassero le vettovaglie, per spingere la città alla resa.  

Questa improvvisa mossa, aveva lasciato sbigottiti Sergianni e la regina; per di più, in segreto, vi erano ancora molti partigiani del defunto Luigi II; le preoccupazioni  aumentarono nel sentire che sarebbe giunta un’armata navale, per sostegno di Sforza, e Giovanna e Sergianni chiedevano aiuto al papa, mandandogli come ambasciatore Antonio Carafa; il papa però,  si dava per malato, scusandosi e facendo sorgere il sospetto di avere delle intelligenze con Luigi.

Ma Carafa, detto Malizia, trovava una buona soluzione per la regina; Alfonso d’Aragona aveva preparato un esercito per la conquista della Corsica, posseduta dai genovesi; il papa Martino V gli aveva mandato l’ambasciatore Garzia Cavaviglia, cavaliere di Valenza, vietandogli di compiere questa impresa; costui incontrava Malizia, che gli suggeriva che il suo re Alfonso avrebbe potuto mandare l’armata a soccorrere la regina Giovanna, con la possibilità, per lui, di succedere nel regno. Garzia promise di scrivere subito al re, e Malizia  mandava, per riferire alla regina, Pascale Cioffo.

La regina accettava immediatamente il progetto e Cioffo si recava a Piombino dove lo attendeva Garzia, che si recava dal re Alfonso in Sardegna, offrendogli l’adozione e la successione del regno; il re Alfonso, sebbene sconsigliato, accettava e la regina lo adottava con atto notarile, con promessa di concedergli Castenuovo e Castel dell’Ovo e la Calabria col titolo di duca, come designato successore.

Alfonso mandava quindi, con molto danaro, sedici galee armate, su cui s’imbarcava anche Malizia, al comando di Raimondo Perillos; la regina ratificava  l’atto di adozione con Perillos, disponendo che nei quarti del suo stendardo, ci fosse anche quello d’Aragona e mandava il danaro ricevuto, con l’investitura delle città di Capua e dell’Aquila a Braccio da Montone, il quale giungeva in suo aiuto con tremila cavalieri.

Il re Alfonso sollecitato dalla regina si recava a Ischia, dove lo raggiungeva per salutarlo, Sergianni con i baroni, e vedendolo bello e di spirito e aveva con sé una bella e fiorita Corte, conoscendo la debolezza di Giovanna, si insospettì che potesse cadere nell’amore della regina; inoltre, i gentiluomini castigliani, catalani, aragonesi, siciliani gli davano l’idea di una potenza che, funestamente gli faceva sorgere nel capo la memoria di Pandofello.

Ma nascondendo i suoi sospetti lo invitava a suo nome, a recarsi a Castel dell’Ovo per fare la cavalcata della città; Alfonso recatosi a Napoli fu accolto dalla regina che si era recata a riceverlo fin sulla porta, consegnandogli le chiavi e dopo feste, giochi e conviti (8 Luglio 1421) fu stipulato il nuovo contratto di adozione.  

Luigi si era fortificato in Aversa e il papa aveva mandato due legati a entrambi, per trattare la pace e si stabiliva una tregua convenendo che, fino a quando non si  fosse conclusa la pace, Luigi avrebbe consegnato le città di Aversa e Acerra ai legati, fino alla decisione che avrebbe stabilito a chi dovessero appartenere.

Nel frattempo Luigi si recava a Roma dal papa e Sforza si ritirava a Benevento, da lui allora posseduta;  ma questa pace non doveva durare, in quanto nel 1422 scoppiava la peste e Giovanna col seguito di Alfonso e Sergianni si recavano a Gaeta, dove Sergianni, per gelosia e pensando sempre alla sua posizione, suggeriva alla regina  che Alfonso, per tanta potenza, l’avrebbe in breve scacciata dal regno.

Lei, intimoritasi, partiva per Pozzuoli, ed essendo nel frattempo cessata la peste, si recava a Castelnuovo, mentre Alfonso, avvertito di questa partenza e temendo che per la volubilità della regina, macchinassero qualche congiura, si recava a Castel Capuano.

L’accorto principe, rendendosi conto che tutto proveniva da Sergianni, lo faceva arrestare (27 Maggio 1423), recandosi dalla regina per giustificarsi; ma lei, avvertita, gli faceva chiudere le porte del castello in faccia, ciò che provocava rumori tra cittadini e spagnoli. Giovanna chiamava quindi Sforza e gli riferiva di voler adottare Luigi al posto di Alfonso, il quale si trovava in cattive acque, in quanto assediato da Sforza in Castel Capuano.

Ma ad Alfonso annunciavano che era giunta a Gaeta la sua armata che aveva fatto apprestare in Spagna, al comando di Giovanni Cardona; la regina chiamava in aiuto Sforza che, per sicurezza, la conduceva ad Aversa, dove lei provvedeva a revocare l’adozione di Alfonso, per indegnità, adottando al suo posto, Luigi.

La regina ardeva dal desiderio di vedere Sergianni libero e Sforza per accontentarla, aveva patteggiato uno scambio con ufficiali aragonesi e catalani che aveva fatto prigionieri a Casanuova, liberando Sergianni, accolto da Giovanna ad Aversa.

Qui avevano luogo le nozze di Chiara Attendola, sorella di Sforza, con  Marino Caracciolo, fratello di Sergianni; questo poi, provvedeva ad avvertire Luigi che si trovava ancora a Roma dal pontefice, dell’adozione e che gli era stato concesso il titolo di duca di Calabria, ma che avrebbe ottenuto quello nominale di re, senza esercitare alcuna autorità, come era stato fatto con Alfonso.

Luigi partiva da Roma accompagnato da Luigi Colonna, capo delle truppe ecclesiastiche, recate in aiuto della regina, che Martino V non aveva mancato di collegarla con Filippo Visconti, duca di Milano, divenuto potente in tutta Italia.

Alfonso aveva chiamato Braccio che assediava l’Aquila, il quale, non volendo abbandonare l’impresa (che conduceva per proprio conto), per la ricchezza della città e della provincia, mandava, Giacomo Caldora con altri ufficiali, con milleduecento cavalieri e mille fanti; lo scontro tra le due armate aveva luogo alle paludi nei pressi di Napoli, dove l’armata di Luigi e Sforza riportava la vittoria.

Alfonso dovette abbandonare l’impresa e ritornare in Spagna, in quanto il re di Castiglia gli stava muovendo guerra e lasciava il comando dell’esercito al fratello, don Pietro, luogotenente di Napoli.    

Nel frattempo giungeva anche l’esercito del duca di Milano e la regina mandava  Sforza a soccorrere l’Aquila, assediata ancora da Braccio; Sforza si trovava presso lo sbocco del fiume Pescara e il mare era tempestoso; un suo paggio era stato travolto dalle onde e Sforza aveva cercato di salvarlo, ma col suo cavallo era stato travolto anche lui dalle onde e il suo corpo scompariva (1424); dall’altro canto anche Braccio da Montone, principe di Capua, moriva improvvisamente; la regina donava il principato a Sergianni, ma lo concedeva senza l’uso del titolo di quel ricco feudo.   

Successivamente (1431) moriva il papa Martino V e gli succedeva il veneziano Michele Condulmer, figlio di una sorella di Gregorio XII, che prendeva il nome di Eugenio IV; nemico dei Colonna, il nuovo papa li accusava di usare le armi per abbattere i loro nemici e li scomunicava; Eugenio IV appoggiava Giovanna e Luigi e della scomunica ne approfittava Sergianni che desiderava la loro eliminazione e aveva mandato il fratello Marino Caracciolo, con i soldati, per privarli degli estesi feudi che avevano nel regno

La regina non mancava in quest’anno di istituire i collegi dei Dottori (giuristi) e dei  Medici e oramai si avviava al tramonto e abbandonandola la sensualità, l’amore che tenacemente aveva portato per Sergianni, si era affievolito, tanto che avendole egli chiesto l’investitura dei feudi di Salerno e Amalfi, lei glieli aveva rifiutati.

 

 

 

ASSASSINIO DI

SERGIANNI CARACCIOLO

MORTE DI GIOVANNA II

E SUA ATTIVITA’ LEGISLATIVA

 

 

 

 

G

iovanna si stava allontanando da Sergianni, probabilmente a  causa dell’età ma anche dell’amicizia che le offriva Covella Ruffo, duchessa di Sessa, dalla quale si sentiva protetta; infatti, Covella un giorno stando dietro la porta, aveva sentito Sergianni che la vituperava come donna vile e indegna, coprendola di parole disoneste e ingiuriose, e sbuffando di rabbia, la trapassava con uno schiaffo, per avergli rifiutato l’investitura principesca dei due feudi; Covella, a Giovanna che piangeva, le aveva rinfacciato la sua debolezza e l’aveva convinta a fare arrestare Sergianni.

La regina aveva dato incarico a Ottino Caracciolo, Marino Boffa e Pier Palagano, acerrimi nemici di Sergianni, di arrestarlo; ma certamente su suggerimento di Covella, che trovando il terreno favorevole, non aveva dovuto far molto per convincerli in quanto avevano preso l’iniziativa di assassinarlo.

L’occasione era stata data dal matrimonio di Trojano Caracciolo, unico figlio di Sergianni, con la figlia di Giacomo Caldora, Maria, e Sergianni lo aveva organizzato in Castel Capuano, dimora di Giovanna; celebrato il matrimonio (17 agosto 1432), seguito dai festeggiamenti, Sergianni dormiva nel suo appartamento e il suo domestico, indotto dall’oro datogli da Ottino,  gli aveva annunciato che la regina era stata presa da male improvviso; mentre Sergianni, indossato appena il farsetto.  apriva la porta per sentire cosa fosse successo, Ottino e gli altri, gli erano saltati addosso coprendendolo di pugnalate e Sergianni cadeva tutto insanguinato; Covella alla notizia aveva commentato: “Ecco il figlio di Isabella sarda, che mi voleva soprastare e ridurre al niente”.

Giovanna, sebbene a malincuore per questa uccisione, concedeva l’indulgenza agli assassini e ordinava la confisca di tutti i beni di Sergianni Caracciolo; e quando Marino Boffa le stava leggendo il relativo decreto, nel punto in cui aveva scritto che per l’insolenza del gran Siniscalco, la regina aveva ordinato l’uccisione; lei lo aveva corretto, dicendo (di aver chiesto) “non la morte ma l’imprigionamento”.

Ora rimanevano due pretendenti, il re Alfonso che si trovava in Sicilia e il duca di Calabria Luigi d’Angiò che risiedeva nel suo ducato a Cosenza; il primo si aspettava la conferma dell’adozione della regina; il secondo di rientrare in Napoli e avere l’autorità; la duchessa Covella, temendo di essere abbassata da Luigi, aveva convinto la regina a tenerlo nel ducato, con nuove incombenze.

Alfonso con alcune galee si era recato nella sua isola d’Ischia facendo chiedere alla duchessa di convincere la regina a confermargli l’adozione e dargli l’autorità; e nello stesso tempo ricorrendo alla forza,  faceva promesse al marito, di alzare le sue bandiere, sostenendole con le armi; ma Covella, già in rotta col marito, accusandolo di ribellione  contro la regina, la convinse a mandare soldatesche nelle sue terre e a  non confermare l’adozione ad Alfonso che se ne tornava in Sicilia.

Intanto Luigi d’Angiò stava trattando (1433) con Amedeo VIII, primo duca di Savoia (1416-1440), il matrimonio con la figlia Margherita; che una tempesta aveva fatto approdare a Sorrento; la regina voleva farla entrare a Napoli con Luigi, per celebrare solennemente le nozze, ma Covella, che voleva governare l’animo della regina, aveva voluto che Margherita andasse a sposarlo a Cosenza; qui Luigi nel mese di novembre dell’anno successivo (1434), moriva di febbre. senza lasciare figli e nel testamento aveva disposto di essere seppellito a Napoli, e il cuore mandato in Francia; ma il suo corpo rimase a Cosenza.

Anche Giovanna, malata, moriva a sessantacinque anni (1435) designando a succederle, col testamento,  Renato d’Angiò, fratello di Luigi che era personaggio da romanzo piuttosto che monarca.   

Tutti gli scrittori che avevano scritto di Giovanna II, l’avevano dipinta come donna immersa nella libidine e Summonte aveva anche scritto che non avendo la regina, concepito figli da ambedue i mariti, usava rimedi per non averne con i suoi molti rapporti adulteri.

Ma Giovanna era stata anche impegnata nella attività di governo, in particolare aveva curato il riordino legislativo, che era stato piuttosto impegnativo; e se si dà del tempo allo svolgimento di questa attività, lo si deve togliere a quello sessuale, che certamente, non intendiamo escluderlo perché Giovanna, come la zia, aveva una spiccata sensualità; ma  occorrerà ridimensionarla, riportandola nei giusti limiti, senza ricorrere alle iperboli  degli scrittori maschilisti.

Il dato certo è che la Giustizia  durante il regno di Giovanna II (come scriveva il giurista Grimaldi) era stata ben amministrata, per aver innalzato ai ministeri i primi giureconsulti dei suoi tempi. Giovanna aveva nominato Gran Cancelliere (Ministro della Giustizia) Ottino Caracciolo che rivestiva anche le cariche di Capo Rettore e Amministratore del Collegio dei Dottori dell’una e dell’altra legge, e con la sua collaborazione  in questo periodo vi era stata un’attività legislativa piuttosto corposa.

Era stata infatti  pubblicata, non solo la già nominata “prammatica Filangeria”, che rendeva successibili nei feudi, le figlie femmine, in assenza di eredi maschi; era stato accresciuto il Collegio dei Teologi istituito da Ladislao ed era stato rimaneggiato tutto il sistema delle lauree per il Dottorato (delle quali, una riguardava la Medicina, l’altra l’Uno e l’Altro diritto, vale a dire Il Diritto che comprendeva il Diritto Canonico e il Diritto Civile, e vi era anche quella in “Vitirinaria”);  compilati e riportati in unico Corpo, denominato Riti della Gran Corte.

Inoltre, i Corpi delle rendite reali erano chiamati Riti; l’originario compilatore era stato Andrea d'Isernia al tempo di Re Roberto, il quale aveva compilato un testo delle Costituzioni del Regno col nome di Rubrica de decimis e l’altro dei Riti della regia Camera, che riportava in pratica tutte le decime versate alla Camera Reale, fin dal tempo di Federico II.

Con Giovanna II era stata inoltre reimpostata tutta la materia delle lauree, di cui diamo qualche cenno, relativo alla tesi di laurea. Era stato infatti stabilito che il Gran Cancelliere dovesse fissare il numero dei docenti che dovevano procedere agli esami per la concessione della laurea di Dottorato (istituita da Federico II), per esercitare l’avvocatura, nell’Una e l’altra legge, con un capo del Collegio, detto Priore; essa  comportava una meticolosa regolarizzazione, anche di disposizione dei dottori esaminandi, seduti nei loro banchi, in base al grado di anzianità, durante l’esame; tali disposizioni giungevano fino  all’istituzione dei Bidelli.

L’esame del dottorando si svolgeva in due giorni e appare interminabile, in quanto prevedeva anche la messa allo Spirito Santo;  si divideva in due sessioni; il primo giorno, dopo la messa, il laureando sosteneva l’esame in forma  privata (sul diritto canonico e corpus civilis), su domande poste innanzi a una commissione di quattordici docenti, ciascuno dei quali decideva il voto da assegnare il secondo giorno (che prevedeva il giuramento di ciascuno sul proprio voto); il secondo giorno in forma pubblica, con discussione sull’argomento posto, su un argomento che era stato dato all’esaminando  il giorno precedente.

Singolare le spese che il laureando doveva sostenere, sotto forma di una serie di regali ben precisi (e diversificati nel loro valore, probabilmente in base alle possibilità economiche del laureando), iniziando dal Gran Cancelliere, che poteva essere o un astuccio guarnito d’argento per uso scrittoio, del valore di cinque ducati, con una borsa galante (elegante) e un pettine d’avorio del valore di un ducato oppure, un anello del valore di tre ducati, oppure una berretta con un paio di guanti; e, a ciascuno dei dottori del Collegio, un anello del valore di un ducato o in sua vece, un paio di guanti; ere inoltre previsto che, i dottori che promuovevano i dottorandi, dovessero avere una veste per uno, di ducati cinque, oltre all’anello. alla borsa e al pettine d’avorio; e al Notaio del Collegio (poi Segretario), per tutti gli atti che questi dovesse fare (per l’esame privato e per l’esame pubblico),  un ducato e un paio di guanti.

Il laureando doveva pensare anche ai Bidelli del Collegio, ai quali sia per l’esame privato, che pubblico, doveva dare mezzo ducato per ciascuno e un paio di guanti;  per i Maestri della Sacra Scrittura che assistessero a tale funzione, era previsto un paio di guanti e una berretta: e un paio di guanti all’arcivescovo di Napoli come al Giustiziere degli Scolari nel caso  fosse presente; questi doni dovevano essere consegnati al Priore o al Notaio del Collegio che ne esaminavano il valore ... ma ciò, prima  che avesse luogo l’esame privato!

Queste disposizioni di Giovanna II assumono rilevanza in quanto avevano subito modifiche solo dopo quasi un secolo e oltre, negli anni 1524 e 1569.

 

 

FINE