e
Giovanna I
LE REGINE
GIOVANNA I E II
DEL REGNO DI
NAPOLI
E GLI ANGIOINI
Michele E. Puglia
SOMMARIO: IL PAPA ASSEGNA COME FEUDO A CARLO I D’ANGIO’ IL REGNO DELL’UNA E DELL’ALTRA SICILIA; CARLO II D’ANGIO’ E I SOSPETTI SULLA SUCCESSIONE DEI FIGLI; IL RE ROBERTO CON LA SUA SAGGEZZA NON AVEVA PREVISTO LE DIFFICOLTA’ DEL MATRIMONIO TRA DUE BAMBINI; GIOVANNA SPOSA ANDREA D’UNGHERIA E DOPO IL SUO ASSASSINIO E’ CONTESA DAI DUE FRATELLI DI TARANTO; IL GIUDIZIO DEGLI STORICI MASCHILISTI SULLE DONNE EMERGENTI; FILIPPA LA CATANESE E I FAMILIARI PERDONO LA VITA E LE RICCHEZZE; LA GRAN TEMPESTA DI NAPOLI DESCRITTA DA PETRARCA; PRIMA DISCESA DI LUDOVICO D’UNGHERIA E SUE VENDETTE; IL CONCISTORO INDETTO DAL PAPA AD AVIGNONE PER GIUDICARE GIOVANNA I; SECONDA DISCESA DI LUDOVICO D’UNGHERIA; NUOVA INCORONAZIONE DI GIOVANNA I CON LUIGI DI TARANTO CHE MUORE; I NUOVI MARITI DI GIOVANNA I E L’ASPIRANTE DEL BALZO L’ELEZIONE DI DUE PAPI L’ASSASSINIO DI GIOVANNA; GIOVANNA I NEL GIUDIZIO DI BOCCACCIO E GIOVANNA I E II NEL SARCASTICO RACCONTO DI BRANTOME; LA PIAGA DEL BRIGANTAGGIO NEL REGNO RITENUTA DA DUMAS ELEMENTO NATURALE; LA SUCCESSIONE DI DUE BAMBINI LADISLAO E LUIGI SOSTENUTA DA DUE PAPI; MENTRE LADISLAO RAFFORZA LA SUA POSIZIONE LO SCISMA PROSEGUE CON LA ELEZIONE DI PAPI E ANTIPAPI; LE VICISSITUDINI DEL REGNO DI GIOVANNA II; GIOVANNA II LIBERATA DALLA SCHIAVITU’ DI GIACOMO CADE NELLE MANI DI SERGIANNI CARACCIOLO; MORTE DEI DUE GRANDI CAPITANI DI VENTURA ATTENDOLO SFORZA E BRACCIO DA MONTONE; ASSASSINIO DI SERGIANNI CARACCIOLO MORTE DI GIOVANNA II E SUA ATTIVITA’ LEGISLATIVA

Stemma di Carlo
I d’Angiò
IL PAPA ASSEGNA
COME FEUDO
A CARLO I D’ANGIO’
IL REGNO DELL’UNA
E DELL’ALTRA
SICILIA
|
C |
arlo d’Angiò (1226-1285), figlio del re Luigi VIII di
Francia e di Bianca di Castiglia, come ultimo dei figli, era
destinato alla carriera ecclesiastica, ma per il suo temperamento e per una
serie di circostanze. seguì la strada delle armi.
Aveva ventitre anni quando il conte Raimondo
Berengario IV di Provenza e Folcalquier, prima di morire (1243) aveva lasciato
la contea alla sua ultima figlia, Beatrice; il re Giacomo I d’Aragona intendeva
sposarla per impadronirsi della contea e andò a metterla sotto assedio; ma Carlo,
di carattere impetuoso e di animo combattivo e spietato, con l'esercito andò a
liberare Beatrice, portandola a Parigi, sposandola, con gran pompa di
festeggiamenti (1246).
In questa occasione Carlo era armato cavaliere dal
fratello, re Luigi IX di Francia, il quale, per effetto del matrimonio,
diveniva conte di Provenza. Non solo; ma per la morte dei fratelli, ereditava
le contee di Angiò e del Maine; le sue ambizioni erano però di maggior respiro,
per cui si recava a Tunisi (1269) per prestare aiuto a suo fratello Luigi IX,
ma lo trovava moribondo, colpito dalla peste, e fu Carlo a sottoscrivere col re
di Tunisi un trattato in base al quale quest’ultimo avrebbe pagato ai re francesi
un tributo di ventimila pistole
all’anno.
Della contea di Provenza non facevano parte le
città di Arles e Marsiglia, che per concessione dell'imperatore Federico II,
erano repubbliche indipendenti; podestà di Arles era stato eletto Borallo del
Balzo che esercitava la stessa funzione ad Avignone, il quale, intraprendente,
intrigante e spinto da ambizione, con l'appoggio segreto della regina Bianca,
si impegnò per far passare Arles (1251) e Avignone (1251) nel dominio dei fratelli
Carlo d’Angiò e Alfonso di Poitiers.
Invece, Marsiglia che resisteva, intimorita dalla presenza dell'esercito
comandato da Carlo, che aveva fatto un saccheggio dimostrativo dei campi
intorno alla città, pur sottomettendosi, riusciva a mantenere i propri
privilegi.
Federico II e suoi discendenti (*), erano stati dichiarati
dal papa nemici della Chiesa, in particolare re Manfredi, che si era
impossessato del regno; Riccardo di Cornovaglia, fratello di Enrico III
d’Inghilterra e Edmondo, figlio dello stesso Enrico III, furono sollecitati, uno
dopo l’altro, prima dal papa Innocenzo IV (1243.1254), e poi da Alessandro IV (1264-1261),
ad assumere il regno di Sicilia come
feudo della Santa Sede, al fine di
scacciare la Casa di Svevia.
Ma le trattative non andarono a buon fine, in
quanto Riccardo e Edmondo non vollero accettare il regno di un principe di così
alto valore, come Federico II; né riuscirono i maneggi del papa Urbano IV
(1261-1264), il quale alla fine si rivolse a Carlo d’Angiò, di animo
intraprendente e guerriero ambizioso; eletto nel frattempo senatore dal popolo
romano, nonostante il papa si mostrasse contrario a questa carica, in quanto comportava
il governo della città e il papa non voleva stranieri nel suo governo.
Sulla indecisione di Carlo ad accettare il regno,
interveniva la moglie Beatrice, contessa di Provenza. l’unica di tre sorelle a
non essere regina, come le altre due (Margarita regina di Francia, moglie di
Luigi IX e Leonora, regina d’Inghilterra); fu lei a spingere il marito ad
accettare il regno, ma ebbe la sfortuna di morire di parto due anni dopo aver
ricevuto l’incoronazione a trentanove anni
(1268).
Morto Urbano IV, gli era succeduto Clemente IV
(1265-1268), che provvide a mandare in
Francia a Carlo il breve dell’investitura del reame di Sicilia (1265), e Carlo,
nello stesso anno (maggio) si imbarcava a Marsiglia ben sapendo del pericolo
rappresentato dalla flotta nemica di pisani e genovesi, che sosteneva Manfredi.
La fortuna volle che questa flotta fosse dispersa
da una tempesta, proprio all’imboccatura del Tevere, piena di ostacoli che non
permettevano l’ingresso alle navi; qui Carlo giunse con le sue galere e rimossi
gli ostacoli, salito su una nave
sottile, risalendo il Tevere, giunse al
monastero di san Paolo fuori Roma.
Carlo entrava in città (maggio) tra le
acclamazioni del popolo, della nobiltà e dei magistrati usciti con una pompa
che eguagliava quella degli antichi imperatori; recatosi nella chiesa di san
Giovanni in Laterano, il papa rimasto a Perugia, aveva delegato i cardinali,
Rodolfo Caprario, Ancherio Pantaleone, Riccardo Annibaldesco, Goffredo di
Alatro e Matteo Ordino a officiare la cerimonia solenne con la quale fu
investito del regno di Sicilia (citra e
ultra Pharum), come Carlo I, il giorno dell’epifania (6 Gennaio 1266), detta
dai francesi, festa del re; a memoria
di questo giorno Carlo assegnava in cambio al Capitolo Vaticano, cinquanta once
di oro annue.
Giunto a Roma il suo esercito comandato da
Roberto, figlio del conte di Fiandra, seguito da numerosa nobiltà francese,
Carlo, fu accompagnato dai cardinali, Ottaviano e Riccardo Annibaldesco, al
confine del regno; giunti, in località Colonnella,
il cardinale Ottaviano gli disse: “da qui
in avanti il regno è tuo, vai con Dio”, e dopo avergli dato la benedizione se
ne tornò a Roma, mentre il cardinale Riccardo lo accompagnava per spingere la
popolazione a combattere contro Manfredi, nemico della Chiesa.
Carlo, liberatosi di Manfredi e Corradino, dopo
aver distribuito tra i numerosi francesi e provenzali che lo avevano
accompagnato, i feudi dei nobili svevi, organizzò il regno con magnificenza, rinforzato
con armate terrestri e navali.
Con Carlo I il regno prosperò nelle finanze,
industrie, commercio e nell’agricoltura; egli promosse allevamenti di animali
da cortile; in particolare aveva incrementato
l’allevamento di cavalli della razza
napoletana (**); il calabrese Bonifazio, gli aveva dedicato un libro di
ippiatria (mns.) intitolato “Trattato del
cavallo e della cura delle sue malattie”
scritto in greco e tradotto dal domenicano Antonio Dapera.
Carlo I era stato anche mecenate e aveva favorito le
scienze e le lettere; aveva innalzato superbi edifici e chiese, edificato o
abbellito edifici; in riconoscimento delle sue doti, altri principi,
considerandolo potente e temuto, gli lasciavano le loro eredità (***).
Ma Carlo I aveva effettivamente ben
regnato?
In parte, per le sue realizzazioni si può dire
che avesse ben regnato ma, poco prima di morire (****) dovette
subire la sanguinosa rivolta del Vespro,
da parte dei siciliani (1262) perché il suo ben
regnare, aveva avuto il suo lato negativo; vi era stato chi lo aveva
criticato aspramente in quanto Carlo I aveva
lasciato che i nobili francesi trattassero i sudditi con arroganza e con le
vessazioni, come popolo conquistato.
I francesi odiavano Palermo dove governava il
giustiziere di Val Manzana, Giovanni di san Remigio, mentre il vicario del re,
Erberto d'Orleans risiedeva in Messina.
Avvenne che il martedì (31 Marzo 1282) successivo
alla Pasqua (29 Marzo), nella chiesa di Santo Spirito, agenti del fisco riconoscendo
alcuni debitori, li arrestassero; non solo: i francesi si comportavano
villanamente con le donne e un certo Droetto, fingendo di cercare delle armi sul
corpo di una donna, le palpeggiava il seno (secondo altra versione la donna
sarebbe stata la moglie di Giovanni da Procida); la donna sveniva e mentre lo
sposo urlava “muoiano questi francesi”,
usciva dalla folla un giovane che trafiggeva Droetto e al grido muoiano i francesi si dava inizio alla
strage dei francesi: in meno di due ore furono sgozzati duemila francesi; per
riconoscerli facevano pronunciare la parola Sicilia,
in quanto i francesi non pronunciavano la c; la rivolta, che aveva avuto inizio
in questo modo spontaneo, fu proseguita da Giovanni da Procida e dai suoi
compagni.
Carlo I fu costretto a ritirarsi e regnare sulla
parte ultra pharum, mentre la Sicilia
(citra pharum) diveniva regno indipendente, assegnato a Pietro I d’Aragona
il quale, chiamato (1286) a Barcellona per la morte di suo fratello Alfonso,
lasciava il regno a suo fratello Federigo II (nominato re di Trinacria),
rimanendo soggetto agli aragonesi, con tutte le conseguenze negative per il
futuro che comporterà questa separazione.
Ciò che di negativo era stato detto di Carlo I,
era che “pur avendo reso Napoli metropoli
del regno, oppresse la parte più bella d’Italia; non vietò le concussioni e le
aperte rapine dei suoi ingordi ufficiali; fu il quarto flagello della nostra
patria (scriveva Castelli in "Fasti
di Sicilia" 1820, riprendendo Galanti), senza alcuna virtù, smoderatamente superbo e borioso che si guardava
come re del mondo, trattava i sudditi con disprezzo e col più crudele
dispotismo, divorato da fervida ambizione, barbaro più di un trace o di un
cannibale. Gli si imputò di aver fatto avvelenare san Tommaso d'Aquino (1274),
temendo che riferisse al papa Gregorio X, le sue crudeltà. Era questa una voce
al tempo di Dante.
D’Egly (Histoire
des rois de Sicile, Paris 1741), appoggiato da alcuni storici, lo faceva morire
penitente, gli appropriava le belle qualità dello splendore, della sobrietà.
del coraggio; lo chiamava protettore delle lettere, casto, grave nei discorsi e
nelle realizzazioni; nel rovescio della medaglia, lo scopriva macchiato dalla
estrema ambizione, collerico, desideroso di vendetta, severo fino alla
barbarie; troppo inclinato ai suoi provenzali; non badò a trarre dalla sua
parte due grandi uomini siciliani, Procida e Lauria e concludeva che “se seppe conquistare, non conosceva nessuna maniera di sapere ben
regnare”: insomma fu inetto in politica e fu modello per cattivi principi.
In ultima analisi, riassumeva tutto ciò che può
soddifare due partiti, pro e contro, che
si formano di norma sui personaggi di rilievo (si legga in Articoli: Doktor Faust ecc.)
*) Corrado, re dei romani, figlio legittimo di
Federico II, era in Germania quando apprese la morte del padre, dal quale
riceveva in eredità il Regno dell’una e dell’altra Sicilia, mentre Manfredi,
suo fratello naturale, era nominato governatore.
Corrado, venne in Italia nel 1251 e in Lombardia
trovò molto scarse le forze ghibelline, così come in Romagna e Toscana e
imbarcatosi dal Friuli giunse con l'esercito a Manfredonia, accampandosi nelle sue vicinanze, a Siponto.
Il suo esercito accresciuto dai saraceni di
Lucera e della Sicilia debellò i ribelli; poi si rivolse ad assediare Napoli,
ordinando a Manfredi di far venire le galere dalla Sicilia. I napoletani non
avevano forze sufficienti a difendersi e chiesto aiuto al papa dal quale ebbero
solo promesse; esaurite tutte le scorte di carne, tra cavalli, cani e altri sordidi animali, si arresero a patto
della salvezza dei cittadini. Ma la città fu messa a sacco e furono compiute ogni
genere di crudeltà e di libidine nei confronti di donne, vecchi e bambini; le antiche mura furono abbattute e dopo due
mesi Corrado se ne partì, dando a Manfredi, tanto
simile al padre in crudeltà, il secondo grado di comando nel regno, dopo di
lui.
Ma nello stesso tempo, Corrado, ritenendo
Manfredi di animo regio e adatto più a dominare che a governare, poiché il
principato di Taranto comprendeva molti altri feudi, per indebolirlo, pensò di togliergli
parte di questi feudi e gli tolse il contado di Gravina, di Tricarico, di
Montescaglioso; inoltre tolse dal principato la nomina del Giustiziere, che
spettava a Manfredi, sostituendolo con uno di sua nomina, per ogni provincia
del regno. Non solo, ma mandò via dal regno tutti i parenti del lato materno che
si rifugiarono in Romania presso la sorella Costanza, imperatrice di
Costantinopoli; mentre Manfredi accettava
tutto con dissimulazione e prudenza (De Saris, Istoria del regno di Napoli,
1792).
Corrado si trovava a Melfi, quando moriva
all’improvviso (1253) e secondo Collenuccio, Manfredi lo aveva fatto avvelenare
dal suo medico (Di Costanzo, Istoria del regno di Napoli, 1805), ma, secondo De
Saris, sarebbe stato avvelenato dal
fratello Enrico ... che aveva dodici
anni ed era venuto dalla Sicilia!
Corrado aveva designato Manfredi, tutore del
figlio Corradino (che con la madre Elisabetta si trovava in Germania); Manfredi,
dopo essersi assicurato il possesso di tutta la Sicilia e della Puglia, e dopo
aver messo in giro la voce che Corradino fosse morto (1257), si fece incoronare
a Palermo, re di Sicilia e di Puglia.
Carlo con il suo esercito, dopo aver sconfitto
Manfredi (a Benevento) ed essersi liberato di lui facendogli mozzare la testa, si era rivolto
contro Corradino, il quale, datosi alla
fuga a Tagliacozzo, fu preso presso Astura da un Frangipane e consegnato a
Carlo I; questo lo fece processare e condannare,
con iniqua sentenza alla decapitazione, che ebbe luogo a Napoli (1268); la sua
morte, per la giovane età, commosse i contemporanei (celebrato da Dante Inf.
XXVIII-17-18: Summonte Istoria del Regno di Napoli, 1748)). L’eredità del regno
era raccolta da Pietro d’Aragona che aveva sposato Costanza, figlia di
Manfredi, a seguito della rivolta del Vespro.
**) Di cui furono dotate tutte le province, dove
tutti i cavalli erano marchiati e registrati
con disposizioni severissime (era lui che firmava quando un cavallo
usciva dal regno); il valore di uno stallone da battaglia si aggirava intorno a
50 once d’oro (circa cinquantamila dei nostri euro, centomilioni delle vecchie
lire!).
***) Baldovino II, imperatore di Costantinopoli,
gli cedette il principato di Acaia (appartenuto a Guglielmo di Villeharduin) e
Morea, il regno di Tessalonica e di tutte le città, eccetto Costantinopoli e le
isole di Lesbo, Samo, Cos, e Chios; il regno di Albania, Durazzo e Corfù
dichiarandolo loro sovrano; Maria di Antiochia gli cedeva il regno di
Gerusalemme.
****) Si
stava recando a Brindisi, quando si ammalava a Manfredonia dove moriva nel
1285; il corpo fu portato a Napoli e sepolto nella chiesa Maggiore
CARLO II
D’ANGIO’
E I SOSPETTI
SULLA SUCCESSIONE
DEI FIGLI
|
C |
arlo II (1254-1309),
re di Napoli e Gerusalemme, conte di Provenza (claudicante a causa dell’anca
spostata, Collenuccio riferisce che alcuni scrittori lo descrivevano alla
napoletana, sciancato), aveva sposato
Maria d’Ungheria figlia dell’ultimo re Bela IV († 1323), ultima erede di quel regno, dalla quale
aveva avuto quattordici figli (*) oltre agli illegittimi avuti dalle amanti.
Di costoro,
il primogenito Carlo Martello (1272-1295), essendo morto il re Ladislao IV
(1292) d’Ungheria e Dalmazia ed essendo divenuta
Maria, erede legittima del regno, dal padre Carlo II, era designato come erede
del regno d’Ungheria e Dalmazia, ed era incoronato a Napoli.
Carlo
Martello, con la moglie Clemenza, moriva di peste (1295), lasciando un figlio
che gli succedeva, Caroberto (dai nomi dei bisavi Carlo e Roberto, ma per
Villani era derivato da Carlo-Umberto - Napoli 1288-Buda 1342), come Carlo II
re d’Ungheria (1308), fondatore di questa limitata dinastia, sebbene il trono
gli fosse stato contestato da Andrea III Arpad (ultimo di questa dinastia
estinta, da non confondere con un altro Andrea. duca di Schiavonia (che si
faceva passare per fratello di Maria), col quale in pratica aveva condiviso il
regno.
Il secondo
figlio di Carlo II re di Napoli, Ludovico, si faceva frate presso il convento
di san Lorenzo di Napoli, per cui, come erede del regno e designato principe di
Salerno, gli succedeva il terzogenito Roberto.
Seguivano gli
altri fratelli: il quartogenito Filippo, principe di Taranto e di Acaja, primo
di questa casata (**); il quintogenito Raimondo-Berengario,
conte di Andria; il sestogenito, Giovanni, morto giovane; il settimogenito Tristano
(così chiamato perché nato durante la prigionia del padre quando era principe di
Salerno); altro Giovanni, l’ottavogenito, conte di Gravina e duca di Durazzo,
fondatore di quest’ultima casata (***), che aveva sposato Agnese, figlia di
Arcimboldo conte di Perigord, da cui era disceso Carlo III di Durazzo; ultimo
nato di Carlo II, era infine, Pietro, conte di Gravina, oltre alle femmine (****).
La
successione del terzogenito Roberto il Saggio (1278-1343) come re di Napoli, aveva
avuto dei connotati oscuri, a causa del dubbio insinuato dai pretendenti, sforniti
di qualsiasi prova, sulla circostanza che quando moriva il primogenito, fosse
stato il secondogenito a eliminarlo, per appropriarsi del regno.
Nel caso di Roberto, prima di lui vi erano due
fratelli, il primo e secondogenito, dei quali il primo, sebbene fosse morto con
la moglie di peste (v. n.*), si era ugualmente insinuato che fosse stato avvelenato; mentre per Ludovico, che si
era dato volontariamente alla vita religiosa, si era insinuato che fosse stato costretto ad abbracciare la vita
religiosa!
E così, si era verificato che l’unico figlio di
Roberto, Carlo, duca di Calabria, dopo aver sposato Caterina figlia dell’arciduca
d’Austria, che moriva senza avergli dato figli; in seconde nozze sposava Maria
di Valois, che gli dava un maschio, al quale era dato il nome di Carlo Martello,
il quale moriva dopo otto giorni.
Il saggio Roberto, non avendo altri eredi maschi a
cui poter far ricorso, rassegnato, pronunciava la frase “cecidit corona capitis mei” (cade
la corona dal mio capo); gli rimanevano solo le due nipoti, Giovanna e
Maria per cui redigeva il menzionato testamento, in cui, per evitare la lotta
tra gli aventi causa, designava a succedergli la primogenita Giovanna, mentre
Maria costituiva la riserva; ma la lotta per togliere il trono a
Giovanna e appropriarsene e approfittare di Maria, si scatenava ugualmente, e
le armi che dovevano servire per essere adoperate in guerra e mantenere il
regno in pace, furono rivolte contro gli
stessi principi, in lotta tra di loro.
Di Costanzo ritiene che il regno potesse esser dato
a uno dei reali, che erano molti, che fosse abile alla successione, dandogli
poi la piccola Giovanna in moglie; ma il re Roberto aveva preferito, per
scrupolo di coscienza o per altra ragione, rivolgersi al nipote Carlo, re
d’Ungheria al quale aveva mandato
un’ambasceria e la proposta fu accettata per
Andrea, secondogenito che lo avrebbe egli stesso accompagnato a Napoli,
ciò che ebbe luogo, dopo essersi imbarcato nel Friuli, giungendo alla fine di
luglio 1333 a Vasto.
*) Carlo Martello, Ludovico, Roberto, Filippo, Raimondo,
Berengario, Giovanni, Tristano, altro Giovanni, Pietro, Maria, Bianca,
Margarita, Beatrice Eleonora.
Carlo Martello aveva sposato (1285) Clemenza
d’Asburgo figlia dell’imperatore Rodolfo I e di Giovanna d’Hoenberg; come detto
moriva di peste con la moglie e furono sepolti nel Duomo di Napoli; oltre a
Caroberto, aveva avuto la figlia Clemenza (primogenita) che aveva sposato il re
Luigi Hutin (il Garbuglio) di Francia e Beatrice che aveva sposato Giovanni II
delfino del Viennese (di Francia).
**) Le tre figlie femmine avute da Ludovico (un maschio, Carlo Martello era morto in
giovane età) erano: Edwige, che sposava Ladislao V Jagellone re di Polonia e Maria regina d’Ugheria, sotto
la reggenza della madre Elisabetta, ma gli ungheresi chiamarono Carlo III di
Durazzo re di Napoli, che fu l’ultimo del ramo angioino di Durazzo a regnare
(era figlio di Ludovico, conte di Gravina, figlio di Giovanni, fratello di re
Roberto e Margherita, figlia Roberto Sanseverino, conte di Corigliano).
***) I figli di Filippo, quarto figlio di Carlo
II, erano: Raimondo-Berengario conte di Andria, Gian-Tristano, religioso,
Giovanni conte di Gravina e duca di Durazzo, Pietro conte di Eboli; le femmine,
Maria moglie di Sancio d’Aragona e Maiorca; Bianca, moglie di Giacomo II
d’Aragona, Margherita, moglie di Carlo di Valois; Beatrice in prime nozze
sposava Azzo VIII d’Este e in seconde nozze, il conte Bernardo del Balzo di
Montescaglioso (i del Balzo acquisiscono successivamente il feudo comitale di
Andria, che diveniva ducato quando Francesco sposava Margherita, sorella di
Filippo, che in prime nozze aveva sposato Edoardo di Scozia (contro il parere
di Filippo), da cui nasceva Giovanni del Balzo, che sposava Agnese di Durazzo;
Eleonora diveniva moglie del re di Trinacria, Federico d’Aragona.
****) Come femmine, Carlo II aveva avuto
Clemenzia che aveva sposato il conte di Valois, fratello del re di Francia;
Bianca diveniva moglie del re Giacomo d’Aragona; Eleonora moglie di Federico re
di Sicilia; Maria, moglie del re di Majorca; Beatrice, moglie di Azzo d’Este,
marchese di Ferrara e alla morte di questo, di Beltramo del Balzo, conte di
Montescaglioso.
IL RE ROBERTO
NELLA SUA SAGGEZZA
NON AVEVA PREVISTO
LE DIFFICOLTA’
DEL
MATRIMONIO
TRA DUE
BAMBINI
|
I |
l re Roberto (1276-1343), dalla prima moglie
Violante, sorella di Jaime d’Aragona re di Maiorca, aveva avuto due figli, Carlo e Ludovico; di
questi, il secondo moriva fanciullo e gli moriva anche la moglie (1302); in
seconde nozze sposava Sancia d’Aragona, cugina di Violante, che non gli dava
figli e gli sopravviveva.
Tutte le speranze per una successione erano
riversate su Carlo, duca di Calabria, detto l’Illustre, il quale seguiva il padre nell’attività di governo e dando
prova di averne le capacità, aveva suscitato nel padre grandi aspettative (i
monarchi erano ossessionati dalla voglia di mantenere il trono attraverso i
figli maschi! ndr.) e spinto dal
padre aveva avuto tre matrimoni, nella
speranza di avere discendenti maschi.
La prima era stata Caterina, figlia del duca
d’Austria; la seconda, Maria Ottava, figlia di Carlo di Valois (fratello del re
di Francia) e la terza (*), era stata Matilde
figlia del conte di San Paolo, che gli dava due figlie femmine, Giovanna (nata
il 1326) e Maria (nata il 1329); mentre per Summonte ed altri, le due figlie
provenivano dalla seconda moglie, Valois; noi seguiamo la maggioranza, visto
che non si hanno notizie su questo conte
di san Paolo; su di esse, Roberto doveva fare affidamento per la successione.
“Avvenne (scrive M. Villani in “Cronica”), che il senno di
tanto principe, accecato dal proprio amore della carne, morendo, lasciò la
giovane regina ricca di grande tesoro e governatore del suo reame”.
Il re Roberto detto il Saggio, pur prevedendo i contrasti che sarebbero sorti alla sua
morte sulla successione al regno, per testamento predisponeva che la nipote Giovanna
avrebbe potuto ereditare il regno al compimento del quindicesimo anno di età e per
conferma, aveva fatto giurare la nobiltà; e aveva pensato anche al matrimonio
della bambina; ma, (nella sua saggezza!) non aveva potuto prevedere che cosa
sarebbe successo facendo sposare due bambini di sette anni!
Il bambino che le era stato destinato, era il
principe Andrea, detto Andreasso, figlio
di Caroberto (Carlo II) d’Ungheria e Dalmazia, a sua volta, figlio ed erede di
Carlo Martello, primogenito di re Roberto e fratello minore di Ludovico-Luigi (detto
il Grande), che succederà al padre e regnerà per quarant’anni.
Destinato così Andrea da re Roberto a sposare
Giovanna, era stato chiamato a Napoli ed era stato accompagnato (1333) dal padre,
che, venendo da un paese ancora semibarbaro, era rimasto colpito, non solo dalla pompa dei principi di sangue
reale e dallo splendore e magnificenza di tutti i nobili e signori, e dalla
opulenza del regno.
Il matrimonio fu celebrato con grandi
festeggiamenti a settembre, al giungere della dispensa del papa (e il re Roberto
aveva voluto che fosse anche consumato!), con la partecipazione di tutti gli
ambasciatori dei principi e repubbliche d’Italia; il re Carlo II, era rimasto
anche stupefatto dalla magnificenza degli abiti dei principi reali e dei nobili
del regno, con i servitori del duca di Calabria che indossavano la sua divisa, delle
feste, giostre, tornei ed esercizi militari ai quali aveva partecipato; giunta la fine di ottobre, il re se ne tornava
nel suo regno, soddisfatto per il futuro del figlio .
Andrea era stato affidato alle cure di fra’
Roberto e del gruppo di nobili ungheresi che lo avevano accompagnato, mentre
Giovanna era affidata alle cure di Filippa che seppur dotata di acutezza di ingegno,
non aveva nessun insegnamento da trasmettere a chi sarebbe divenuta la futura regina.
Le cose continuarono a questo modo anche dopo il matrimonio con Andrea, quando Filippa,
aveva agevolato i rapporti intimi di Giovanna con il figlio Roberto, giovanetto
di bell’aspetto e dal fisico prestante.
Per Andrea, nominato nel frattempo duca di
Calabria, il re Roberto aveva disposto infine che dovesse essere coronato quando
avesse raggiunto l’età di ventidue anni; per ogni altra evenienza, in caso di morte
prematura, a Giovanna, sarebbe subentrata la sorella Maria.
Quando il re Roberto morì (1343), i due genitori di
Giovanna, principi Carlo e Maria, erano premorti, il primo il 1328, la seconda
il 1332, mentre la seconda figlia Maria, nasceva postuma (1329).
La convivenza tra i due bambini, invece che
amalgamare i loro sentimenti, aveva inaspriti i loro caratteri. Andrea
diventerà di carattere acre e burbero, incostante negli affetti, a cui piaceva
la vita all’aria aperta e la caccia, senza altro desiderio che quello di
raggiungere i fasti reali e l’autorità.
Di animo astioso, seguiva i grossolani costumi
degli ungheresi, dai quali era circondato e si lasciava guidare; per di più
aveva un pessimo precettore (maestro di
lettere e di creanze), il frate tedesco, fra’ Roberto, qualificato da
Petrarca “aspide uscito dalla tomba di re
Roberto”.
Sebbene Andrea apparisse sgradevole per i suoi
modi primitivi, re Roberto sperava che a Napoli, con l'opera di precettori, si fosse
potuto raffinare nelle lettere, nella civiltà e nelle virtù. Ma, quando si
accorse che Andrea non aveva perso niente dei costumi barbari ungheresi, si
pentiva della scelta che aveva fatto per Giovanna che, a dodici anni superava
per intelletto le sue coetanee ed ora si trovava legata a un ragazzo così da
poco.
Egli quindi, ritenendo di poter rimediare, aveva
convocato il Parlamento generale con tutti i baroni del regno, facendoli
giurare su “Giovanna come regina” e istituendo,
solo per Giovanna, e dopo la sua morte, un Consiglio di reggenza, mentre per il
marito disponeva gli fosse riconosciuto il titolo di “consorte della regina”, fino all’età di ventidue anni, quando
avrebbe assunto anch’egli il titolo di re.
Alla morte di Roberto, fra’ Roberto, con astuzia,
sostituiva poco a poco con gli ungheresi, tutti i consiglieri che erano stati
nominati dal re Roberto per amministrare ogni cosa a loro volontà e la regina
che aveva solo diciassette anni, era regina solo di nome, ma in effetti,
prigioniera degli ungheresi e quel che più l’affliggeva, era la doppiagine
del marito che, non meno di lei, era soggetto agli ungheresi .
*) Secondo l’Anonimo, Historia del regno di Napoli, 1769, il più prossimo agli
avvenimenti.
GIOVANNA
SPOSA ANDREA
D’UNGHERIA E DOPO
IL SUO ASSASSINIO
E’ CONTESA DAI DUE
FRATELLI DI TARANTO
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C |
elebrate le esequie di re Roberto (1343),
Giovanna e Andrea furono acclamati, ma il governo era già nelle mani di fra’
Roberto il quale, poco a poco, come abbiamo visto, aveva sostituito tutti i
consiglieri più fidati del defunto re, mentre Giovanna, che aveva appena diciassette anni, da una
parte si trovava ad essere prigioniera degli ungheresi, dall’altra, era
afflitta dalla dappocaggine di Andrea, il quale, senza attenersi alle
disposizioni del re Roberto per la sua incoronazione, era incoronato con Giovanna,
come consorte.
Il papa Clemente VI aveva infatti mandato il
cardinale Americo, per incoronarli solennemente, presente tutta la nobiltà del
regno, e Giovanna, come regina di Sicilia e Gerusalemme, con gli altri titoli
(*), giurava l’omaggio alla Chiesa,
obbligandosi al versamento del censo.
I principi reali, primo fra gli altri, il
principe di Taranto, che voleva dirigere lui il regno, vedendo come stavano
andando le cose, decisero di tornarsene ciascuno nelle proprie terre, ciò che
aveva fatto sorgere in fra’ Roberto il sospetto che un giorno sarebbe
precipitato dalla grandezza in cui si trovava, per cui aveva avuto l’idea di
chiamare dall’Ungheria, Ladislao, fratello di Andrea, al quale suggeriva di
prendere in moglie la sorella di Giovanna, Maria, di cui era innamorato non
corrisposto, il duca Carlo di Durazzo,
primogenito del principe di Acaia.
Il duca avendo saputo dei maneggi di fra’
Roberto, procuratasi la dispensa papale si recava a rapirla in Castelnuovo e la
sposava nel cortile del suo palazzo (vi
è chi dice contro la sua volontà).
Nello stesso tempo Ludovico, conte di Gravina,
fratello secondogenito del duca, prendeva per moglie Margherita, figlia di
Roberto Sanseverino, conte di Corigliano, dal quale nasceva il futuro Carlo III.
L’idea della
uccisione di Andrea era maturata in quanto Ludovico d’Ungheria, non potendo
sopportare che il fratello non avesse titolo che pareggiasse quello di
Giovanna, su suggerimento di fra’ Roberto, si era rivolto al papa, perché il
fratello fosse incoronato re di Gerusalemme e Sicilia, contro le ultime volontà
volute da re Roberto. Ciò che i congiurati (**) non volevano accadesse; per
questo essi presero la decisione di assassinarlo e decisero di farlo al più
presto possibile, prima che arrivasse l’ordine del papa di incoronarlo.
Ma secondo
gli storici maschilisti, che ritenevano Giovanna “sfrenata nelle opere veneree”, la causa della uccisione di Andrea sarebbe
stata dovuta alla circostanza che “Andrea
non riuscisse a soddisfarla sufficientemente”!
I congiurati (***)
avevano ritenuto opportuno assassinare Andrea ad Aversa e lo avevano invitato a
una partita di caccia con cani e falconi, accettata da Andrea; era la sera del
diciotto settembre 1345; il re era nella camera della moglie e uno dei suoi
camerieri lo aveva chiamato, da parte di fra’ Roberto, per comunicazioni
urgenti da Napoli; il re uscito dalla
camera, attraversava una loggia con balconata e quando si trovava in mezzo alla
loggia, preso per la folta chioma bionda
gli fu messo il cappio al collo e
facendolo cadere giù dalla loggia, rimaneva impiccato; ciò avvenne mentre gli
ungheresi che lo sorvegliavano erano sprofondati nel sonno causato dal vino.
Questo modo
usato per uccidere Andrea, come spiegato nella “Cronaca di Gravina”, era dovuta al fatto che la madre di Andrea gli
aveva dato un anello magico che (si riteneva) impedisse poter essere ucciso con
il veleno o con il ferro.
Tommaso Costo (1545 c.ca-1645 c.ca), uno degli
storici colpevolisti di Giovanna, che riteneva
Giovanna, sessualmente insoddisfatta, si esprimeva in questi termini: “Fu così che Andrea, dopo tre anni di
permanenza nel regno, trovandosi con Giovanna ad Aversa, la regina mandò a
chiamarlo per importanti comunicazioni e
mentre Andrea si trovava vicino a un poggiolo, fu preso e postogli il cordone
attorno al collo, fu deliberatamente spinto dal poggiolo e impiccato per
commissione della regina. La causa, per molti era stata perché sebbene molto
giovane, non fosse sufficiente per le opere veneree, come lo sfrenato appetito
della regina avrebbe voluto”.
E lo storico aggiungeva: “Si narra ancora oggi, per Napoli, che la regina, facendo un giorno un cordone d’oro assai grosso, Andreasso, come sogliono i mariti, le aveva
chiesto per che cosa facesse quel cordone così grosso e lei, sorridendo rispose
che lo faceva per impiccarlo”; Costo aggiungeva: “che Giovanna teneva Andreasso in tale disprezzo che non temeva di
dirgli simili parole delle quali Andreasso poco se ne curava; ma vi fu il
seguito del cordone, col quale, Andreasso finì la sua vita”.
La città era
rimasta attonita; gli ungheresi avevano perso l’ardire, dubitando di essere
tagliati a pezzi se perseveravano nel governo; il corpo del re morto era stato
portato in chiesa, dove rimase senza essere sepolto.
Dal comportamento di Giovanna e dal successivo
matrimonio (20 agosto 1347) con Luigi di Taranto, considerato bellissimo giovane (ma era di bassa
statura) Costo, richiamava una lettera scritta da Luigi, con cui relativamente
alle scuse avanzate da Giovanna sulla sua estraneità alla uccisione di Andrea,
le faceva presente (in maniera non sufficientemente chiara): “La disordinata vita precedente, la ritenzione del dominio nel regno, la
vendetta non fatta, l’altro marito tolto e le seguenti scuse sul marito, sono
prove che, della morte di tuo marito sei stata partecipe e consorte”.
Luigi aveva preso dalla madre Caterina di
Curtenay (****) l’ambizione, non l’intelligenza, e nel periodo degli screzi,
derivanti dal rifiuto di Giovanna di concedergli il potere, Luigi le rivolgeva
insulti, frasi volgari e le rinfacciava di essere di facili costumi e di
tradirlo con Enrico Caracciolo-Rosso (v. sotto), siniscalco della Corte, giovanetto come la regina, bello e di corpo
prestante (come scriveva Matteo Camera*****) e di questa passione se ne
parlava a Corte.
Caterina di Courtenay congiurava e tramava contro
la sua antagonista Agnese di Perigord (madre di Carlo III), perché ciascuna di
esse voleva che Giovanna sposasse il loro figlio; per Caterina che, senza tener
conto del rapporto che lei aveva con Luigi, mirava al matrimonio del suo primogenito,
Roberto, anch’egli giovane e bello, e lo aveva mandato a Castelnuovo durante un’assenza di Luigi ....
e Giovanna lo aveva accolto!
Ed ecco
sorgere grandi scandali, scriveva il
Cronista di Gravina, in quanto Giovanna, (cedendo alla debolezza della sua
sensualità ndr.) aveva accettato la
presenza di Roberto. Ma, vi era anche il fratello Luigi, innamorato di
Giovanna, il quale un giorno che Roberto era uscito dal Castello, vi entrava e
fatto alzare il ponte levatoio, dava ordine di non fare entrare nessuno; e
quando giunse Roberto gli fu negato l’ingresso e gli fu di necessità andarsene al proprio ospizio. Oh quanto misero
regno è questo, ridotto ad essere governato da una donna e da fanciulli. Mentre
il duca Luigi dimorava nel Castello con la regina, il fratello, risentito per il trattamento subito, preso da furore, mandò
suoi nunzi al re d’Ungheria scrivendogli di venire nel regno e con il suo aiuto
e dei suoi seguaci, lo soggiogasse e
prendesse i traditori di suo fratello.
*)
Duchessa di
Puglia, principessa di Salerno, di Capua, di Provenza, di Folcaquier contessa
di Piemonte.
**) I congiurati, secondo Camera,
erano i seguenti: Gasso di Denicy conte di Terlizzi, capitano della
città di Napoli Roberto de Cabanni, conte di Eboli,Raimondo de Catania,
maggiordomo della regina,Carlo di Gambatesa, conte di Montorio; Carlo d'
Artois, conte di S. Agata e Monteodorisio con suo figlio Bertrando; Giovanni e Restaino di Lagonessa, Nicola di
Melissano, cameriere della regina, Corrado di Catanzaro e Corrado d'Umfredo di Montefusco;
Francesco de Luco, paggio, Giovanni e Ligorio Caracciolo, militi napoletani ed
altri; costoro erano spalleggiati
(come dice Camera) dalla imperatrice Caterina, da Filippa e dalla nipote
Sancia, non esclusa la stessa regina. Come si vede il duca Carlo di Durazzo in
effetti non era tra i congiurati.
***) Secondo Gravina era stato
Bertrando figlio di Carlo d’Artois e Tommaso Pace, figlio del ciambellano, che
faceva parte del seguito di Andrea, ad ucciderlo per ordine di Sancia e della
zia maestressa (Filippa) e altri;
costoro, su suggerimento del duca Carlo di Durazzo, furono torturati e
condannati dal maestro Giustiziere Bertrando de’ Bausi e del Notaio Nicolò e, diversamente dalla tortura delle
tenaglie, Gravina aveva scritto che erano stati legati alle code dei cavalli
e trascinati fino alle forche dove fu
eseguita la condanna.
Secondo Crivelli, Giovanna
aveva dato incarico al conte Ugo del Balzo di ricercare e punire i rei: il
conte aveva accertato che gli strangolatori
di Andrea erano stati Carlo Artus e Bertrando suo figlio, Corrado di Catanzaro
e Corrado Umfredo, che le guardie avevano fatto fuggire e l’imperatrice aveva
dato loro ricovero a Costantinopoli e conveniva scriverle del dovere di
consegnarli, per eseguire la condanna a Napoli.
****) Luigi era figlio di
Filippo di Taranto che in prime nozze, aveva sposato Caterina d’Epiro, detta Ithaar o
Thomar, figlia di Niceforo Ducas-Comneno, despota di Morea; era stata colta dal
marito mentre lo tradiva con Bartolomeo Siginulfo, conte di Caserta, ucciso
all’istante, mentre lei era ripudiata; ma
poco tempo dopo Ithaar moriva avvelenata (1308). Con la sua morte,
Filippo ereditava molte città della Morea, che Thomar aveva portato in dote. Caterina,
cosiddetta imperatrice, in quanto il
marito era chiamato “imperatore”,
perché abitava nel palazzo presso il Seggio di Montagna che per antica
tradizione e per le insegne era detto palazzo
dell’imperatore.
In seconde nozze Filippo di
Taranto, sposava Caterina de Courtenay (1301-1346), figlia di Filippo di Courtenay (a sua volta figlio di Baldovino
II); di spirito diabolico, principale
fomentatrice della uccisione di Andrea (come la riteneva Matteo Camera), studiava il modo di dividere l'unione di
Giovanna con la morte di Andrea e come
una vipera desiderava far sposare Giovanna a uno dei suoi figli, la qual cosa (scriveva Dominici
de Gravina in Chronicon) ottenne dal demonio, da cui seguì la
distruzione del regno. Da Caterina aveva avuto tre figli maschi e quattro
femmine; i maschi Roberto, suo
successore nel principato di Taranto e nel titolo imperiale; Luigi, che aveva
sposato Giovanna I, e Filippo conte della Cerra.
Le figlie femmine di Caterina II erano Margherita moglie di re Odoardo di
Scozia e poi contro la volontà del fratello, di Francesco del Balzo, conte di
Montescaglioso, che per effetto di questo
matrimonio portò la Casata nell’ambito della Casa Reale; in questa
occasione gli fu riconosciuto il titolo di duca d’Andria che fino a quel
momento era stato usato per gli eredi al trono; il figlio, Giacomo del Balzo, aveva sposato Agnese di Durazzo.
L’antagonista di Caterina, era
Agnese di Perigord (madre di Carlo III)
che si era ammalata (1345) e Caterina aveva predisposto un piano
diabolico per vendicarsi del matrimonio del figlio Carlo con Maria. Agnese era
assistita da Sancia (nipote di Filippa) e non si riusciva a capire quale fosse
la sua malattia; per individuarla il
medico aveva ritenuto di esaminare le urine; Sancia, convinta da Caterina,
sostituiva le urine di Agnese con le sue, che era incinta; il medico attribuiva
quindi l’indisposizione alla gravidanza e lo riferiva ai figli; la notizia
turbava il figlio Carlo e si diffondeva per la città; i nobili e le dame ne
erano sdegnati e nessuno più prestava fede ad Agnese che cercava in tutti i
modi e inutilmente, di discolparsi; a
questo punto si era pensato di eliminarla e vi provvedeva Sancia che
l’avvelenava con un clistere.
*****) Matteo Camera, Giovanna I regina di Napoli e Carlo III di Durazzo, 1889.
IL GIUDIZIO
DEGLI STORICI
MASCHILISTI SULLE
DONNE EMERGENTI
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C |
on l’accesso di Giovanna al
trono ... apriti cielo! ... si era
aperta la “gazarre” di accuse che erano le stesse che abbiamo
visto in Isabella di Baviera (v. in Art,), relativamente alla imbecillità
del sesso!
Tutti gli storici, cominciando da Guicciardini e altri,
gagliardi maschilisti, erano dell’idea che le donne non fossero atte a regnare
a causa dell’imbecillità del sesso; e
proprio Guicciardini in riferimento alla prima Giovanna attribuiva, oltre
all’imbecillità del sesso, “non meno
dell’infamia dei costumi”, e alla seconda Giovanna, “non differente né d’impudenza, né di lascivia di costumi, perché
metteva il Regno nelle mani delle persone nelle quali impudicamente metteva il
suo corpo” (Pandolfello!) .
Ma contro le donne in genere,
cominciando dal libro considerato sacro, unanimemente riconosciuto maschilista,
nell’Ecclesiastico, XXVI, fa
riferimento a: “L’impudicizia della
femmina si riconosce al levar degli occhi e al suo sguardare”. e XLII: “In mezzo a donne non far dimora, ché dai
vestimenti esce la tignola e dalla donna la malvagità dell’uomo”.
Poi nel medioevo si
scatenarono i santi, come san Bernardo, che le commiserava dicendo, “povere donne, idiote e senza cultura”e, quando
fioriva la veneziana francesizzata, Cristine
de Pizan, per sua fortuna era stata
ignorata; e il peggio del peggio era arrivato con Oddone
di Cluny che con disgusto così si
esprimeva: “mentre non sopportiamo di
toccare uno sputo o un escremento nemmeno con la punta delle dita, come
possiamo desiderare di abbracciare questo sacco di escrementi?”
Nell’800, con Matteo Camera
(1807-1891)
la situazione migliorava alquanto e su Giovanna
I, lo storico così si esprimeva: “Per
quanto giudiziosa e di sentimenti religiosi, altrettanto la sua condotta andò
vituperata dalla posterità e fu una delle principesse più esposte alla
maldicenza. La storia le reca biasimo di complicità nel regicidio di Andrea,
suo primo marito. E il Muratori aveva scritto: “Esser più facile cosa lavare e imbiancare il
volto di un moro, di quello che sostenere, con buon effetto, la causa di
Giovanna di Napoli. Nulladimeno, molti gravi autori, e fra questi i due
giureconsulti Baldo e Angelo da Perugia, e dopo, Tristano Caracciolo, il Di
Costanzo, Giannone ed altri, hanno procurato di difenderla dalla taccia di complicità
nel viricidio”.
Le seducenti fattezze di Giovanna nello splendore della vita,
l’animo suo gentile e cortese, l’esaltazione cavalleresca del tempo, i costumi
che rendevano graditi anche alle donne più virtuose e schive gli omaggi dei
cortigiani e le poetiche lodi dei trovatori: un tal complesso di cose la fecero
facilmente cadere in riprovevoli corrispondenze amorose che ben presto furono
sussurrate all'orecchio dello sposo Andrea; il che diede colore di
verosimiglianza alle voci che i suoi nemici sparsero su di lei (M. Camera).
D’altronde, non insensibile ai piaceri e alle
vanità soleva di frequente con Andrea prendersi gusto per le pompe, per gli
spettacoli, per le cavalcate, per la caccia e per le giostre; e Camera citando
il cronista Domenico Gravina aggiunge: “Hi
juvenes dux et regina juvenilibus ludis et solutiis insistentes. atque regales
splendidibus vestibus adornati, alteratim produentes, alterim equitantes per
splendidam urbem neapolitanam, de nullo curantes incedant”: I due giovani,
duca e regina, si dedicavano a giochi giovanili, adornati di regali e splendide
vesti, alternando passeggiate a cavalcate per la città napoletana, di nulla
curandosi nel loro incedere.
Giovanna I, si esprimeva con
grazia e squisitezza in latino e in provenzale; trattando con letterati e artisti,
parlava e scriveva meglio di qualunque donna del suo tempo; in fondo era stata
una buona regina, nonostante tutte le vicissitudini che aveva dovuto superare;
aveva fatto ingrandire la reggia di Castelnuovo, aveva fatto eseguire lavori al
porto ed altro; la sua debolezza derivava dalla sua sensualità: dai vari
rapporti che aveva avuto con gli uomini, si può dire che non resisteva al
fascino maschile, ciò che le aveva creato non pochi problemi nel governo del
regno.
Un verso poetico di Collenuccio, che
Costo qualificava “malizioso”, diceva
(di Giovanna I): Non
regina, ma rovina del regno: e
riferiva di un giureconsulto napoletano che l’aveva chiamata “rovina del
regno”, aggiungendo questi versi: “Regna
regunt vulvae, gens tota clamat simul ohh; interitus regni est a muliere regi”:
- Quando regna la vulva, la gente insieme esclama ohh; la distruzione di un regno
passa da una donna a un re.
E per Giovanna II, che “Ultima Durazzi fiet distructio regni”: L’ultima di Durazzo sarà la
rovina del regno.
FILIPPA LA
CATANESE
E I FAMILIARI
PERDONO LA
LA VITA E LE RICCHEZZE
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F |
ilippa, detta la
Catanese, moglie di un pescatore, era una lavandaia di bell’aspetto che la
duchessa Violante d’Aragona, (sorella del re Giacomo-Jaime di Sicilia), prima
moglie di Roberto, aveva assunto quando il marito era ancora duca di Calabria e
si era recato in Sicilia per combattere contro Federico dì Aragona e lei
era incinta del primo figlio, Ludovico.
Questo primo figlio dato a balia a Filippa, era
morto bambino e i principi, l’avevano tenuta
con loro e l’avevano portata a Napoli (non si esclude che Roberto fosse
stato colto dalla sua bellezza); nel frattempo Filippa era rimasta vedova e
Roberto, divenuto re, la faceva maritare con il moro Raimondo de’ Cabani (o Cabanni).
Questo moro era stato acquistato da Raimondo de’
Cabani, un moro (non sappiamo quale dei due possa essere quello che si
intravede nel ritratto di Giovanna all’inizio dell’articolo) che come
siniscalco, sovrintendeva alle cucine reali, a cui, le maniere del giovinetto erano
così tanto piaciute, che lo fece soprastante
della cucina reale e facendolo battezzare, gli
concesse il proprio nome e il proprio stemma.
Il giovanetto stando in cucina si era istruito così
bene nell’arte, da ottenere oltre ai favori del duca, grandi guadagni investiti
nell’acquisto di beni; dal servizio in cucina, egli passava a quello di camera
e per il suo senno e fortuna, si innalzava a grandi ricchezze e, Carlo II, lo
nominava cavaliere e vice siniscalco.
Da Filippa, aveva avuto tre figli maschi, Carlo,
Roberto e Pierotto; il primo riceveva il
titolo di barone di Tricase e di Lizzano in Terra d’Otranto e alla sua morte il
titolo passava a Roberto il quale sposava Siligaida Filomarini, dalla quale
aveva due figli, Caterina, moglie di Nicolò d’Aquino, signore di Grottaminarda
e Francesco, deceduto il 1386; il terzo, Pierotto, diveniva vescovo.
Dopo la morte di Violante, Filippa entrava anche nelle
grazie della seconda moglie di Roberto, Sancia, servendola nei lavori e nei
ricami e poco alla volta raggiungeva il livello di maggior-donna della corte. Filippa oltre ad aver favorito gli
amoreggiamenti di Giovanna durante il matrimonio con Andrea, con il figlio
Roberto, aveva favorito anche quelli con Bertrando d'Artois, che giunsero
all'orecchio di Andrea, il quale privo di sovranità, dovette limitarsi a
ingoiare l'affronto.
Filippa dal figlio Roberto aveva avuto (secondo
altri, da Pierotto), una nipote, Sancia (dal nome della seconda moglie di re
Roberto), che fu maritata al conte di Morcone.
Raimondo de’ Cabani, barone di Tricase e di
Lizzano, otteneva il titolo di gran
siniscalco del regno di Sicilia e della casa reale e la moglie Filippa con la
nipote Sancia, avevano avuto l’incarico, la prima, di maestressa di Giovanna, la seconda, di compagna di Maria.
Giovanna la teneva in tanta considerazione, da
nominarla contessa di Montorio, suscitando scandalo tra la nobiltà: mentre
Roberto, essendo di bell’aspetto (non
siamo informati sul colore della sua pelle!), era in fama di godere, durante il
matrimonio con Andrea, l’amore della regina.
Dopo la morte di Andrea, era stato istituito un
Tribunale per investigare sui suoi assassini, a capo del quale era stato nominato il giustiziere Bertrando
(per altri, Ugo) del Balzo, conte di Montescaglioso (*), il quale li mise tutti
sotto processo e, ottenute sotto tortura le loro deposizioni, con cui si erano
dichiarati colpevoli, furono tutti condannati alla decapitazione, previo
smembramento (ma non erano costoro i responsabili! ndr.).
Prima della esecuzione, verso il mare, nella
parte che guarda la città, erano stati drizzati dei pali con pungenti chiodi e
i colpevoli erano stati tormentati per la confessione, al cospetto del popolo;
ma la distanza era tale che la loro deposizione non si poteva sentire; si
ritenne comunque confermata la loro partecipazione alla uccisione di Andrea.
“Dopo
alcuni giorni tutti e tre, ignudi,
furono legati su tre carri e portati per la città, mentre erano
smembrati dai carnefici, pezzo per pezzo, con tenaglie infuocate fino a che
giunsero in piazza del mercato dove era stato preparato il fuoco; prima che la
vecchia Filippa vi giungesse, rimase senza spirito, per i crudeli tormenti del
carnefice; il cuore e le interiora furono estratte e appese alla porta Capuana
dove per lungo tempo diedero testimonianza della fiera crudeltà e il resto del
corpo fu bruciato. Roberto tolto dal carro fu legato a un palo e miseramente
bruciato; solo Sancia riuscì a salvarsi
dal rogo e fu portata in carcere perché incinta” e l’esecuzione
rinviata fino al parto e tenuta in
carcere.
Ma ciò non bastò agli astanti, che i corpi mezzi arrostiti furono tolti dalle fiamme e furono tratti i cuori che da alcuni, a
guisa di sacrificio furono mangiati e i corpi, con gli uncini furono trascinati
per le cloache e per i posti più vili e sozzi della città e ivi lasciati
insepolti.
Le due esecuzioni non eseguite, erano state
quelle di Filippa, morta a causa delle atroci torture subite prima di giungere
al patibolo e di Sancia perché era incinta; tutte le loro ricchezze erano
infine confiscate.
Per fugare ogni sospetto, Giovanna aveva
pubblicato un editto col quale dichiarava di perdonare ogni offesa alla sua
persona, da coloro che avevano assalito il castello dove abitava, ma, come
scrive l’Anonimo (*), “tra la gente
correva il sospetto che Giovanna fosse stata partecipe dell’assassinio di Andrea e quest’atmosfera
di sospetto determinò la loro decisione
a recarsi ad Avignone”.
*) Bertrando del Balzo aveva
per moglie Beatrice d’Angiò, figlia del re Carlo II.
LA GRAN TEMPESTA
DI NAPOLI
DESCRITTA DAL PETRARCA
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A |
Napoli(1343),
si era verificata una gran tempesta, denominata tempesta di Napoli, di cui parla anche Petrarca, in una sua lettera
al cardinale Giovanni Colonna, che si era estesa dal Tirreno all’Adriatico,
prevista per il 25 novembre, si era verificata il 24 e aveva spaventato tanto la
popolazione, che le donne a piedi nudi, con i capelli sparsi e i bambini in
braccio si erano recate nelle chiese piangendo e chiedendo misericordia.
Il Petrarca si trovava a Napoli, nominato dalla
regina Giovanna suo cappellano, e alloggiava nel monastero detto di santa
Chiara, nei pressi del monastero di san Martino.
In quella
notte, egli dice, il mare si era ingrossato e per tutta la città si sentiva il
suo fremito, e si sentivano terremoti che si temeva che tutta la città
rovinasse; i frati si erano recati in chiesa a
cantare il mattutino, sbigottiti da sì atroce tempesta portando in
processione per la chiesa, con le torce accese, la croce con le reliquie dei
santi, piangendo e gridando misericordia e prostrati tutti a terra, con voci
piangenti e dolorose, invocavano la pietà divina, aspettando che la chiesa
cadesse sulle loro teste, tanto era l’orrore della notte con i venti, i tuoni,
i terremoti, lo strepito spaventoso del mare e le voci di tutto il popolo;
venuta poi l’aurora quei monaci con gran pianto, cominciarono a celebrar le
messe e fatto giorno cominciò il grido del popolo nella parte alta della città
mentre cresceva il rumore verso la marina, per scorgersi in mezzo al porto
molti uomini sparsi per il mare che si sforzavano di raggiungere la riva,
respinti dalla violenza delle onde e si vedeva quel lido pieno di persone
sommerse che stavano per rendere l’anima, chi con la testa e chi con le braccia
rotte, ad altri che gli uscivano le viscere; né il grido degli uomini e delle
donne che abitavano nelle case vicino al mare era meno spaventevole del fremito
e dove il giorno prima si era passeggiato,, era stato coperto dal mare più
spaventoso di Scilla e Cariddi.
Si levò poi
un nuovo rumore e il terreno sotto i
piedi di quella gran moltitudine, appressata a vedere il gran spettacolo,
cominciava ad abbassarsi e la moltitudine fuggendo si ritirò verso la parte
alta della città, cosa orrenda agli occhi mortali vedere il Cielo a quel modo
irato, il mare implacabile e mille moti di onde nere, azzurre, come sogliono
nelle tempeste, ma bianchissime, si vedevano venire dall’isola di Capri.
La regina
Giovanna, a piedi nudi con le altre donne, andava visitando le chiese dedicate
alla Vergine madre di Dio.
Nel porto non
vi fu nave che avesse potuto resistere e tre galere giunte da Cipro, che
avevano solcato tanti mari, si videro sommergere senza che si salvasse un uomo;
similmente le altre navi all’ancora, percuotendosi tra di loro, si fracassarono
con morte di tutti i marinai, solo una dov’erano al remo quattrocento
malfattori, destinata alla guerra in Sicilia, si salvò, avendo sopportato
l’empito del mare e avvicinandosi la notte venne a rasserenarsi il Cielo e
placarsi l’ira del mare; e così vennero a salvarsi i più cattivi per l’alto
giudizio di Dio, perché facessero penitenza dei loro misfatti. Ciò avvenne il
martedì, giorno di santa Caterina e molti edifici nelle vicinanze del mare
rovinarono e gran parte del molo grande andò in rovina e presso il molo piccolo
molti navigli perirono con le loro mercanzie del valore di cinquantamila ducati.
Il Villani aggiungeva che: crollarono
molti edifici della marina e il gonfiarsi del mare aveva allagato i magazzini
del vino, nocciole e ogni mercanzia, con un danno di oltre quarantamila once
d’oro ed è da ritenere che una tal tempesta fosse stata causata dal vento di
scirocco e levante che anche altre volte avevano causato grandissimi naufragi
alla nostra città (ma si trattava evidentemente di tsunami, all’epoca sconosciuto ndr.).
PRIMA DISCESA
DI LUDOVICO
D’UNGHERIA
E SUE VENDETTE
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G |
iovanna, avuta notizia della morte di Andrea, mandava
in Ungheria da Ludovico (*), il vescovo di Tropea, per riferirgli che, essendo lei
rimasta vedova, lo pregava di assumere la sua protezione e quella del piccolo
Carlo Martello appena nato; al ritorno, il vescovo, riferiva che Ludovico
intendeva vendicare la morte del fratello e la minacciava, accusandola della
morte di suo fratello.
Riunito il Consiglio reale, ritenne che Giovanna dovesse prepararsi ad assumere la sua difesa, ma
prima dovesse prendere marito che avesse potuto, con autorità, resistere a un tal nemico; e fu
fatto il nome di Luigi di Taranto, secondogenito di Filippo, suo amante.
Giovanna, ritenne più opportuno partire,
recandosi ad Avignone e prima della partenza, riuniva i baroni, gli eletti e i
governatori delle città, ai quali annunciava la venuta del re d’Ungheria, dando
assicurazioni sulla sua innocenza per la morte del marito, come era manifesto a Dio (**) e disponendo che al re di Ungheria
fossero consegnate le chiavi della città, sperando
nella giustizia divina.
Quando Giovanna stava partendo (15 Gennaio 1347) non vi fu uomo o donna che non andasse a
baciarle la mano e vederla imbarcare; lasciava il figlioletto Carlo
Martello che aveva tre anni e con lei e Luigi, si imbarcavano l’imperatrice Caterina e il suo
segretario particolare, il fiorentino Nicolò Acciaiuoli.
La notizia della morte di Andrea aveva suscitato
nel fratello Ludovico, giovane e bellicoso, un tale sdegno che decise di
vendicarlo e si apprestò ad armare l’esercito; mentre la regina partiva, si ebbe notizia che il re Ludovico era giunto
a Sulmona con un esercito di cinquemila uomini; egli quindi si stava recando a
Benevento per andare ad Aversa dove gli andarono incontro i reali, il principe Roberto di Taranto,
Filippo suo fratello e il duca di Durazzo, Carlo con i suoi fratelli Ludovico e
Roberto e altri baroni e signori.
Ludovico, dopo averli abbracciati, chiese di
essere portato dove era stato ucciso suo fratello; Carlo di Durazzo aveva cercato
di portarlo via da quel luogo, avendo intuito dall’aspetto del re che voleva
vendicarsi; ma il re smontato da cavallo e salendo nella sala del castello, era
stato portato alla loggia dove era avvenuto il misfatto; egli, girandosi verso
il duca, gli diceva: Tu, traditore e istigatore della morte del
tuo signore e mio fratello, che ti adoperasti a ritardare la sua coronazione e
ti facesti dispensare per sposare tua cugina e cognata (Maria), acciò che morta
la regina e suo marito, tu succedessi; conviene che tu muoia dove facesti morire lui.
Poiché Carlo gli aveva chiesto misericordia, il
re gli rispose: Come ti potrei scusare? E
gli mostrava una lettera con suo sigillo che Carlo aveva mandato a Carlo d’Artois, in cui erano
indicati i particolari dell’assassinio di Andrea.
Come Ludovico aveva ordinato, Carlo fu prima ferito al petto dall’ungaro Filippo, mentre da un altro, era strozzato
(come affermava Camera, mentre Summonte, riferiva che, preso per i capelli gli era
tagliata la gola) e gettato dalla loggia nel giardino dove era stato gettato
Andrea; il suo corpo, rimaneva insepolto per ordine del re fino al giorno
successivo e poi portato per la sepoltura nella chiesa di san Lorenzo a Napoli.
In effetti Carlo di Durazzo era stato ritenuto
ingiustamente responsabile; per quanto riferiva Camera, egli era estraneo
all’assassinio di Andrea in quanto parteggiava per Andrea e presso gli altri, godeva poca stima e dimestichezza per essere in
contrasto con la regina che non gli aveva concesso il giustizierato di Calabria e la contea di Alba Fucente, che egli
pretendeva per essere costituita in dote della moglie Maria, indicata nel testamento di Roberto.
Morendo, Carlo di Durazzo, lasciava quattro
figlie femmine, Giovanna moglie del conte Roberto d’Artois; Agnese, moglie di
Cane della Scala, signore di Verona e poi di Giacomo del Balzo, duca di Andria;
Clemenzia morta giovane e Margherita, nata sei mesi dopo la morte del padre, sposava Carlo di Durazzo divenuto re Carlo
III.
Il re Ludovico per sua sicurezza tratteneva come prigionieri,
i principi reali, mandandoli in Ungheria con il piccolo Carlo Martello; il suo
procedere verso Napoli (scriveva Summonte)
era spaventoso, in quanto cavalcava preceduto da uno stendardo nero che
rappresentava un re strangolato; egli aveva ignorato il baldacchino che gli era
stato preparato a Porta Capuana e avute le chiavi di Castelnuovo, vi si era recato, mentre i suoi ungheresi
saccheggiavano le case dei principi reali; la vedova di Carlo, Maria era andata
a ricoverarsi nel monastero di Santa
Maria della Croce con due delle sue bambine e poi vestita da frate andava a
imbarcarsi, per raggiungere la sorella ad Avignone.
Quando Ludovico era in Castelnuovo, in tutta
Italia (1348) si era diffusa la peste (che abbiamo descritto in Art. Pestilenze ecc.); egli faceva fortificare
i castelli occupati, lasciandovi i suoi ungheresi e nominando
suo vicario il barone tedesco Gilforte (Wolfar), detto Lupo; dopo
essersi fermato per quattro mesi nel reame, partiva per la Puglia, dove
nominava vicario Corrado, fratello di Gilforte e si imbarcava a Barletta.
I baroni, increduli per questa partenza, mandavano
a chiamare Giovanna e Luigi; il papa, di Avignone, atteso che Giovanna dal Concistoro era stata ritenuta
innocente per la morte del marito, aveva mandato un Legato dal re di Ungheria
per trattare la pace; il Legato trovò il
re molto alterato o per la morte del fratello, per l’amore che aveva concepito per un sì bel
regno, che già si trovava nelle sue mani e lo considerava suo, in quanto il piccolo Carlo Martello, nel
frattempo era morto.
Prima di partire Giovanna,
avendone grande necessità, aveva venduto la città di Avignone al papa, per ottantamila fiorini
d’oro (secondo Giannone, ma altri indicavano la somma di trecentomila fiorini,
non reale), con possibilità (illusoria!) di riacquistarla; il papa aveva anche
riconosciuto come re, Luigi. Armate dieci
galere (!) Giovanna e Luigi si imbarcarono a Marsiglia e a fine agosto sbarcarono
a Sebeto (duecentotrenta passi distante
dalla città), in quanto il porto con Castelnuovo e gli altri castelli erano
occupati dagli ungheresi, ricevuti con un ricco baldacchino, da nobili e popolo.
L’unico a
non presentarsi era stato il conte di
Montescaglioso, Francesco, che aveva sposato la sorella di Luigi, Margherita, a
sua insaputa, non sapendo la reazione che avrebbe avuto il fratello. Ma il re,
facendo buon viso e avendo bisogno di amici, più che di nemici, mostrandosi
favorevole al matrimonio, alla sua incoronazione, gli mandava la nomina di duca
di Andria, e concedeva, come prima carica, a Nicolò Acciaiuoli per i servizi
resi, quella di Gran Siniscalco del regno.
Dopo di che Luigi cercava di
recuperare i castelli occupati dagli ungheresi, iniziando dal Castello di
Sant’Elmo, che si arrese facilmente, passando poi ad assediare strettamente
Castelnuovo, dove si trovava Gilforte Lupo, in modo che nessuno potesse
soccorrerlo. Ma a soccorrerlo era il
conte d’Apice, il quale versava a Luigi trentamila fiorini, avuti i quali il re
stava per recarsi a recuperare la città saracena
di Lucera. Ma, il grosso delle forze ungheresi che si trovava ad Aversa, si
scontrava con l’esercito di Luigi a Melito, dove Luigi era sconfitto ed erano stati fatti prigionieri
venticinque grandi conti e baroni; per liberarli furono versati duecentomila fiorini, che arricchirono gli
ungheresi e impoverirono i napoletani.
Costoro si rivolgevano al papa,
il quale mandava come Legato apostolico il vescovo Annibaldo Ceccano, il quale,
mentre chiedeva una tregua tra Corrado Lupo e il re, si rivolgeva segretamente ai
capitani tedeschi che egli conosceva, per essere stati al soldo della Chiesa;
costoro, ricevuti centoventimila fiorini, partirono, lasciando nelle sue mani
Capua e Aversa. Corrado a questo punto si ritirava in Puglia avvertendo il suo
re che i tedeschi lo avevano abbandonato. Il re Luigi, recuperate Aversa e
Capua, si assicurava Terra di Lavoro e le altre province circonvicine; il
Legato Ceccano moriva, mentre in Ungheria il re Ludovico si preparava a
tornare.
*) L’Ungheria come anche la Polonia, erano ancora
in condizioni semibarbare e Ludovico detto il Grande (1326-1382) il cui regno
si estendeva fino alla Dalmazia dove possedeva la città di Zara, nella sua opera
di civilizzazione nel Nord dell’Occidente, aveva fatto unire gli slavi ai
celti.
**) Come scrive l’Anonimo, “tra la gente correva
il sospetto che Giovanna fosse stata partecipe dell’assassinio di Andrea e quest’atmosfera di
sospetto determinò la loro decisione a recarsi ad Avignone”.
IL CONCISTORO
INDETTO DAL PAPA
AD AVIGNONE
PER GIUDICARE
GIOVANNA I
|
I |
l papa ad Avignone aveva indetto il Concistoro, per
giudicare la colpevolezza di Giovanna nell’assassinio di Andrea, con la
presenza di cardinali, dei vescovi e tutta la gerarchia ecclesiastica e degli
ambasciatori e tutti i personaggi eminenti che erano accorsi da ogni parte
dell’Europa, descritto da Alessandro Dumas (*), così come lo traduciamo.
Al centro della sala sedeva su un trono elevato,
sedeva come presidente dell’augusto
concistorio il vicario di Dio, giudice assoluto e supremo, investito del potere
supremo e temporale dell’autorità umana e divina. A sinistra e a destra del
sovrano pontefice, i cardinali coperti di porpora occupavano i loro posti,
circondati dalla loro corte della gerarchia ecclesiastica. Di fronte al trono
pontificale, un podio riservato alla regina e al suo seguito; ai piedi del papa
gli ambasciatori del re d’Ungheria; il resto della sala era riempito da
capitani e nobili inviati; tutti gli occhi erano fissati su Giovanna che doveva
pronunciare la sua difesa; la regina era entrata dando la mano al vecchio
cardinale Perigord, suo zio, seguita dalla zia contessa Agnese; il suo incedere
era modesto e nello stesso tempo fiero, la sua fronte malinconica, il suo
sguardo pieno di abbandono e confidenza; prima di parlare, tutti i cuori erano
per lei, Giovanna aveva allora venti anni ed era nello sviluppo della sua magnifica
bellezza; ma un estremo pallore velava
lo splendore della sua pelle satinata e trasparente, le sue guance
magre, portavano l’impronta della espiazione e della sofferenza.
Giovanna parlò con una voce emozionata e
tremante, arrestandosi ogni tanto per asciugare i suoi occhi umidi e brillanti
o per esalare uno dei suoi sospiri che giungevano fino all’anima.
Raccontò con vivo dolore la morte di suo marito, addolorata
e lasciando trasparire lo smarrimento e il terrore da cui era stata presa, come
fulminata da questo orribile avvenimento; aveva portato la mano alla fronte con
l’energia della disperazione, come per arrestare un resto di follia che fece
attraversare nell’assemblea un tremito di pietà e di orrore. E certamente, se
il suo racconto fosse stato falso, la sua angoscia era veritiera e terribile.
Angelo ferito dal crimine, essa avrebbe mentito
come Satana, ma come Satana, essa era dilaniata dalle infinite torture
dell’orgoglio e dei rimorsi.
Così, quando alla fine del suo discorso,
interrotto dalle lacrime, aveva implorato l’aiuto e la protezione contro
l’usurpatore del suo reame, un grido di assenso generale copriva le sue ultime parole, mentre molte mani si
posarono sull’elsa delle spade e gli ambasciatori ungheresi uscirono
dall’udienza, con la fronte coperta di confusione e di onta.
La sera stessa, con grande soddisfazione del
popolo, fu emessa la sentenza che dichiarava Giovanna di Napoli innocente ed
estranea alla complicità nell’assassinio di suo marito; non potendo il papa
giudicare il comportamento della regina dopo l’assassinio e perseguire gli
autori del crimine, in questo affare rilevava una prova evidente di magia e che
la colpa attribuita a Giovanna era la necessaria conseguenza di qualche sorta di
maleficio gettato sulla povera regina, da cui era stato impossibile difendersi.
Nello stesso tempo il papa confermava il
matrimonio della regina con Luigi di Taranto al quale assegnava la l’Ordine
della rosa d’oro e il titolo di re di Sicilia e di Gerusalemme.
Dumas riportava in nota (in italiano), il commento
di Villani, che, per l’assoluta verità dei fatti, la sentenza non poteva scusare
la regina e levare il volgo dal dubbio del sospetto, che ciò che era accaduto non lo fosse stato per forza di malie ovvero, fatture che le erano state
fatte, alle quali la sua natura fragile
femminile, non aveva saputo, né potuto riparare (A. Dumas Les crimes celebres, Paris, 1854).
SECONDA DISCESA
NEL REGNO DI
LUDOVICO D’UNGHERIA
|
I |
l re Ludovico si era preparato a tornare e con un
grosso esercito di diecimila uomini tra pedoni e cavalli, giungendo in Puglia (1350) e dopo aver occupato Trani, a Canosa gli fu fatta
grande resistenza e i canosini respingevano gli ungheresi; ciò nonostante il re
si recava in Principato, prendendo Salerno e Nocera; proseguendo per Aversa che
egli aveva smantellato, non sapendo che era stata fortificata e custodita da
Jacobo Pignatello con cinquecento soldati, e nell’assalirla era rimasto ferito a
un piede; decise di prendere la città per fame e dopo tre mesi di assedio Pignatello
si arrese con salvezza delle persone.
Il re Luigi, avendone avuto notizia, lasciava
Napoli, e temendo il peggio, con Giovanna si recava a Gaeta, mentre Ludovico,
venuto a sapere della loro partenza, si recava a Castelnuovo; dopo aver chiamato i governatori dei Seggi della
città (*), li rimproverava di aver avuto poca fiducia in lui, e aver voluto
seguire la regina; egli, comunque si mostrava benigno verso la città, per aver promesso il sacco ai suoi soldati, era ben
contento di farlo evitare; ma chiedeva una contropartita.
I governatori si riservarono di dare una risposta;
ma il popolo avendo notato che i soldati ungheresi con i loro cavalli
soffrivano la fame, vedendo che i cavalli erano macilenti e a stento reggevano
le selle, e avendo sentito della disponibilità del loro re verso gli ungheresi,
si ribellarono facendo ricorso alle armi; al che, Ludovico decise di partire recandosi con l’esercito in Puglia, per tornarsene
in Ungheria.
Il papa, stanco dei due re, decise di mandare
legati per trattare la pace e il legato si era recato dal re Ludovico, il
quale, o per merito, o perché doveva far guerra a Venezia, che si era impadronita
di suoi possedimenti in Dalmazia, riusciva ad ottenere la pace (1351); con la firma della pace, erano liberati i
principi reali, tenuti prigionieri da quattro anni a Visegrad; Ludovico per
magnanimità ricusava trecentomila fiorini, in quanto, non era venuto per
ambizione ma per vendicare la morte del fratello.
Il re Luigi e Giovanna, ringraziarono il papa e
il Collegio per l’opera prestata, chiedendo un Legato per incoronarli e fu mandato il vescovo di Braga che provvide a incoronarli.
In questo periodo (1354), proveniente dalla
Francia, era giunto a Napoli con dieci galere, il Grande Almirante del regno, Rinaldo del Balzo, conte di Avellino, il
quale si recava a Castel dell’Ovo dalla duchessa Maria, vedova di Carlo di
Durazzo, che lei riceveva in amicizia, ma il conte le diceva di volere che
sposasse suo figlio Roberto; Maria rifiutava e l’Almirante prendendola per
forza, la conduceva sulla sua galera dove
Roberto la violentava.
Il re Luigi che si trovava a Gaeta, informato,
raggiunse il conte del Balzo con una sua galera e dopo aver fatto prigioniero
il figlio, lo portava a Castelnuovo, dove si era recata Maria con quattro uomini armati, che in sua
presenza lo faceva ammazzare e dopo avergli tagliata la testa, il suo corpo era buttato in
mare. L’anno successivo Maria sposava Filippo di Taranto, fratello del re Luigi.
*) Giovanni Barrile per Piazza
Capuana, Bartolomeo Carafa per Nido, Roberto di Rimini e Andrea di Tora per la
Piazza della Montagna, Nardo Ferrillo per la Piazza del Porto, Filippo Coppola per la
Piazza di Portanuova e Leonardo Terracina per la Piazza del Popolo

NUOVA INCORONAZIONE
DI GIOVANNA I
CON LUIGI DI TARANTO
CHE MUORE DI FEBBRE
|
G |
iovanna e Luigi, come
abbiamo detto, avevano chiesto al papa di mandare a Napoli un Legato per incoronarli,
e il papa aveva mandato come Nunzio apostolico, Guglielmo de Gardia, vescovo di Braga; essi comunicarono le loro prossime
nozze, autorizzate con bolla del papa, ai principali dinasti e signori delle
Corti d’Italia per la prossima festa di Pentecoste (il 25 Maggio 1352); la regina aveva preso in prestito per la
solennità dell’incoronamento, dai
mercanti fiorentini, Emanuele Tedici e Sandro Bonifacio, la somma di
quattromila trecento settantuno fiorini d’oro, versati a Lapo Bianco di Firenze,
per l’acquisto di gioie e vasi d’oro e d’argento.
La cerimonia ebbe luogo al Palazzo di Giustizia
della Corte della Vicaria (che Giovanna per devozione aveva poi convertito in
chiesa con accanto un ospedale), con la consacrazione, prima di Luigi e poi di
Giovanna con la corona di Gerusalemme e Sicilia, che ricevettero il giuramento
e l’omaggio di tutti i baroni che, in passato, non avevano preso parte a guerre
contro di loro.
Sebbene il regno fosse assuefatto ai travagli, incendi, morti e rapine, finalmente ebbe la
possibilità di fare grandi festeggiamenti con la cavalcata del re e della
regina, turbata solo da un evento che apparve di cattivo auspicio per Luigi.
Delle donne dalle finestre
lanciando fiori, avevano spaventato il cavallo del re, che si era impennato; il
re per evitare di cadere, agilmente era saltato dal cavallo e la corona che
aveva in testa cadeva, spezzandosi. Il re, senza dar peso al fatto, rimise la corona in testa e
animando i suoi e sorridendo, saliva su
un altro cavallo, riprendendo la sfilata e a sera giungevano a Castelnuovo.
Lo stesso giorno a Giovanna moriva una bambina di
nome Francesca, ma i festeggiamenti proseguirono ugualmente per tre giorni, tra
giostre, giochi d’arme e conviti ai quali parteciparono nobili e popolo di
ambedue i sessi.
Luigi e la regina, pur nelle ristrettezze,
provvidero a concedere nuovi titoli ai baroni, che ora erano di duca e di conte; i primi ad avere quello di
duca erano stati Francesco del Balzo,
duca di Andria e il secondo a Marzano, duca di Sessa.
L’anno seguente il re Luigi (che aveva trentadue
anni), in memoria della sua coronazione, istituiva l’Ordine del Nodo, la cui
divisa era contrassegnata da un nodo d’oro legato sul petto (secondo altri, sul
braccio) con sessanta dei signori tra i più valorosi, che giurarono per la difesa
del re.
Finiti i festeggiamento, ebbero inizio i dissapori,
in quanto Luigi consigliato da Nicolò Acciaiuoli (amante della madre Caterina,
v. nota sopra), infido nei confronti di Giovanna, con la quale faceva il doppio
gioco in favore di Luigi che voleva prendere il comando del regno, mentre
Giovanna non era d’accordo.
Il papa Clemente VI venuto a conoscenza delle
discordie tra i due sposi aveva scritto a Giovanna suggereendole di essere
prudente e cedevole nei confronti del marito; Giovanna rispondeva al Santo
Padre, lamentando il comportamento del marito che aveva fatto imprigionare
ingiustamente Enrico Caracciolo e suo figlio.
Luigi, infatti, per gelosia e per vendicarsi, non
solo aveva fatto imprigionare Enrico Caracciolo-Rosso, Siniscalco e Gran
Camerario. per il quale la regina aveva una segreta passione, ma anche del figlio
Antonio, e li aveva espropriati della contea di Gerace e degli altri loro beni.
Luigi non potette godere il regno in pace perché,
(come diceva Costo), ebbe travagli che
durarono finché visse; recatosi in
Sicilia, trovava regnante Federico d’Aragona e poiché con Giovanna avevano quel
titolo, concordava di riconoscergli quello di “re di Trinacria”; colpito da fortissima febbre, Luigi moriva nel
1362 all’età di quarantadue anni; aveva
passato con Giovanna cinque anni prima
dell’incoronazione e dieci anni dopo.
I NUOVI MARITI
DI GIOVANNA I
E LO SPASIMANTE DEL BALZO
L’ELEZIONE DI DUE PAPI
L’ASSASSINIO DI GIOVANNA
|
D |
opo la morte di Luigi di Taranto (1362), a Napoli
si era presentato il fratello Roberto, con l’intenzione di prendere in mano le
redini del governo; ma Giovanna, che ora aveva trentasei anni, proprio per
evitare ciò, prendeva in considerazione il matrimonio con l’infante di Maiorca,
Giacomo d’Aragona, celebrando le mozze (1363), con plauso generale, concedendogli
il titolo di duca di Calabria.
Dopo tre mesi passati con Giovanna, Giacomo
partiva per andare a combattere per suo padre, ma era fatto prigioniero e
Giovanna lo riscattava col pagamento di
quarantamila ducati; nel 1368, Giacomo ripartiva per soccorrere il genitore, ma
moriva in battaglia (1368); ma vi era stato chi aveva invece scritto fosse
morto per gli strapazzi sessuali ai quali lo aveva sottoposto Giovanna!
Ora Giovanna aveva quarantadue anni, certa di non poter
avere un figlio al quale lasciare il regno, sposava Ottone di Braunwich di
Sassonia (1376), che viveva in Italia come capitano dell’esercito pontificio.
Giovanna nello sposare prima Giacomo e poi Ottone,
aveva indispettito il suo pretendente, Francesco del Balzo (primo di tre
Franceschi della Casa del Balzo), nipote di Raimondo, Camerario della regina. Oramai
i Del Balzo, con matrimoni femminili, avevano trasfuso nelle loro vene sangue
reale e mancava solo che uno di loro sposasse una regina.
Francesco era uno spasimante, invaghito di
Giovanna (... ma non si può dire se di
lei o del regno!), e per ben due volte si era proposto di sposarla e per due
volte era stato in attesa del suo consenso, che non gli era giunto e dei due
matrimoni di Giovanna, il secondo gli aveva suscitavano reazioni di vendetta, da
renderlo proscritto e ribelle.
Come erano andate le cose, le descriveva il
drammaturgo Giacinto Battaglia (*), che
riferiva particolari interessanti ai fini della tragedia che colpirà Giovanna, compiuta
da Carlo III.
Alla morte di Luigi di Taranto, Francesco del
Balzo, si era proposto di sposarla ed era in attesa della risposta che, senza
alcun dubbio egli riteneva sarebbe stata positiva: Un giorno, fu visto passeggiare
taciturno e rabbuiato nelle sale del suo castello di Tiano in Puglia (?) e fu
sentito mormorare indistinte parole d’ira. Mai sapremmo dire quali turbamenti
lo agitassero, il suo amore disprezzato o la sua ambizione delusa; gli era
stato riferito che Giovanna sposava Giacomo di Maiorca. Le nubi della sua
fronte sgombrarono come dissipate da una malia; un leggero sorriso si dispiegò
sul suo labbro pallido e contratto, un’aria di insolita esclamazione trasparve
da tutto il suo volto. Ordinava al numeroso stuolo di servi, di guardie e di
giovani scudieri, che lo seguissero e recatosi a Napoli, dopo aver indossato
splendide vesti, era andato a rendere omaggio agli sposi che festeggiavano il
loro matrimonio.
Dopo non
molto tempo, Francesco ebbe notizia della morte di Giacomo; il suo amore si
ridestò e all’amore si aggiunse il potente stimolo dell’ambizione. Da più
giorni egli attendeva importanti messaggi da Napoli, quando giunse al castello
uno sconosciuto, che dall’aspetto e dagli abiti sembrava appartenere all’ordine
degli avvocati della Chiesa, che domandò di parlargli in segreto; fatto ciò, lo
sconosciuto si accomiatò dal duca. Egli appariva soddisfatto e si intratteneva
familiarmente con i suoi primari ufficiali e li assicurava di un immediato
esito delle sue e delle loro fatiche, quando un nuovo caso tornò a rabbuiare il
suo animo e lo mise sulla via della ribellione e delle violenze.
Un mattino
giunse un messaggio del suo vecchio zio Raimondo del Balzo, Gran Camerario
della regina, quando aprì un foglio dove pensava di leggere la sospirata
conferma della regina, pronta ad offrirgli la sua mano e una corona. Se nonché egli si fece pallido e annuvolato e gettato il
foglio si mise a passeggiare per la stanza, in silenzio. Ottone di Brunswich,
si sentì mormorare; lei mi ha posposto a uno straniero. La ribellione covava
nel suo animo, si strappò dal collo una catenella d’oro con una medaglia che
gli aveva donato la regina, la spezzò e la gettò dalla finestra, pensando alla
vendetta.
Degli otto
sergenti d’arme che egli aveva disponibili, era capo un certo Squarciabrigante
addetto fin dall’infanzia al servizio della sua famiglia, che era solito
adempiere agli incarichi inconsueti e pericolosi che gli erano affidati.
Squarciabrigante, con lo stemma dei del Balzo ricamato
sul mantelletto, che gli scendeva dalla spalla, si era recato dal giurista
Leobaldo d’Isernia, maestro di creanza del piccolo Ladislao, portandogli un
piego da parte di Francesco, che Isernia mandò alla duchessa, mentre
Squarciabrigante se ne tornava dal suo padrone.
Il piego
conteneva una lettera di Carlo di Durazzo alla moglie, quando nel trevigiano
militava per il re d’Ungheria, in cui riferiva certi particolari che la
portavano a recarsi a Roma dove egli l’avrebbe raggiunta, per comunicarle i
gravi disegni che meditava e dovevano in breve maturare (lei aveva sempre la
speranza che la zia, regina Giovanna, anche sposando Ottone avesse un pensiero
per il nipote Ladislao). Lei ebbe un lungo colloquio con Leobaldo d’Isernia.
Ma il maestro
di creanza, invece di consigliarle un moderato partito, le suggeriva di
attenersi a quanto indicato nel foglio, vale a dirle di fuggire dalla Corte di
Napoli e dal regno per “i terribili casi” che si andavano preparando .
Margherita si era recata dalla regina per
chiederle il permesso di partire e raggiungere il marito che desiderava godersi
qualche piccola gioia che gli impegni militari non gli consentivano e
trattenersi alcuni giorni; la regina, senza
avere alcun sospetto, acconsentiva a lasciarla andare, ignara di ciò che le
sarebbe successo; tenendola infatti con sé, avrebbe potuto barattare la sua
vita; ma il destino aveva deciso diversamente!
Nel frattempo moriva il papa Gregorio XI, ed era eletto Urbano VI
(1378), non gradito a Giovanna in quanto appoggiava Carlo di Durazzo (futuro
Carlo III); ma i cardinali francesi si
riunivano a Fondi ed eleggevano l’antipapa Clemente VII (Roberto di Ginevra 1378-1394),
che Giovanna, su pernicioso consiglio del
suo Gran Cancelliere, che la porterà al precipizio (scriveva Costo), Nicola
Spinelli, conte di Gioia, accoglieva con
grandi onori in Castel dell’Ovo.
Ma insorgevano con le armi i napoletani, che non
volevano due papi e per loro ne bastava uno, vale a dire Urbano VI, escludendo
il francese; le conseguenze non si fecero attendere in quanto Urbano VI,
scomunicava Giovanna alla quale toglieva il regno, assegnandolo a Carlo di
Durazzo (come Carlo III), che militava per il re ungaro, per il quale stava
guerreggiando in Friuli contro i veneziani.
Il papa Clemente VII, di fronte alla rivolta dei
napoletani, non sentendosi più sicuro in Castel dell’Ovo. se ne partiva per la
Francia (1379), mentre Giovanna assegnava al figlio secondogenito del re
Giovanni di Francia, duca Luigi d’Angiò (1379), in donazione dopo la sua morte
(con l’assenso dell’antipapa), il Regno di Napoli e Sicilia.
I napoletani, non volendo nuovamente finire sotto
la dominazione francese, chiedevano la
venuta di Carlo III, considerandolo loro compatriota; confermato e chiamato dal
papa Urbano VI, egli giungeva a Roma con un esercito di ottomila ungheresi e mille
italiani, con il comando affidato a Giovanni Bano, nominato senatore romano
(1380).
L’anno seguente, ingrossato l’esercito con le
bandiere del Vaticano, Carlo III giungeva a Napoli, dove trovava ad attenderlo
Ottone, marito di Giovanna; ma Ottone era sconfitto e fatto prigioniero; successivamente
liberato da Carlo III, a condizione che uscisse dal regno.
Dalla Francia era giunto anche Luigi d'Angiò, adottato
da Giovanna, che gli aveva donato il regno, con un esercito di cinquantamila soldati (1382), non
solo per assumere il regno, ma per togliere il papa Urbano VI dal trono; Luigi
si era recato in Abruzzo dove aveva preso l’Aquila e altre città si erano date
a lui; a Napoli erano giunte anche dodici galere che presero Castellammare di
Stabia, per poi passare in Puglia dove
fu attaccato dal conte Alberigo da Barbiano e Luigi riusciva a salvarsi con
cinque ferite; ma recatosi a Bisceglie fu colto da febbre e moriva (1383) e il suo esercito andava disperso.
La regina Giovanna, si era rifugiata a Castelnuovo
e vistasi perduta, circondata dalla nobiltà, ricevendo Carlo III, con le dolci parole che
sapeva ben usar, si metteva nelle sue mani; ma Carlo dava ordine a Gabriele
Orsini, di farla rinchiudere in un posto sicuro.
Carlo nello stesso tempo scriveva al re ungaro,
per chiedergli cosa dovesse fare di lei; la risposta era terribile e non
lasciava scampo: doveva morire, allo
stesso modo in cui era stato fatto morire Andrea suo marito.
Orsini la affidava a Squarciabrigante, il quale, dopo
aver preso un gruppo di sgherri tra i suoi compagni, si recava a Castelnuovo a
prelevare Giovanna e, impadronitosi del castello, intimava in tono minaccioso a
tutti i presenti, di sgomberarlo entro
due ore.
Nel silenzio delle sale echeggiavano urla e grida
selvagge dei compagni di Squarciabrigante, che aveva dato ordine a un suo
compagno di nome Masaccio, di attendere
il risveglio della regina che dormiva.
A parte Squarciabrigante con i suoi sgherri, nel
castello non vi era anima viva; ma da una porta segreta della camera dove
dormiva Giovanna, apparvero le sue due inseparabili dame, Irene di Durazzo e
Teodolinda Collenuccio e nello stesso tempo entrava Squarciabrigante che vide
le donne piangenti; disse alla regina di prepararsi a partire, essendo già notte, e di staccarsi dalle due donne, se non voleva fossero allontanate con la
forza.
Quando la regina fu pronta la fecero salire su
una lettiga e la colonna si mise in cammino per recarsi in Basilicata, dove si
trovava la squallida rocca di Muro, dove giunsero la sera del giorno seguente.
Il castello era di antica e barbara architettura,
diroccato e si presentava come un cumulo informe di rovine; la regina fu
condotta all’interno della torre principale, dove le feritoie sostituivano le
finestre e le porte erano chiuse con chiavistelli; la povera regina si rese
conto che in quella specie di sepoltura era giunta alla fine dei suoi giorni e
distesa su una panca con un materasso, si addormentava.
La sua condanna fu eseguita da Squarciabrigante che strangolava la regina con le sue stesse
chiome, emettendo un gemito fioco e prolungato, soffocata sotto i piumacci del
letto.
Il suo corpo era portato a Napoli nella chiesa di
Santa Chiara, per ordine del re, esposto
per sette giorni, insepolta, perché fosse vista da ogni persona e i suoi
partigiani uscissero da ogni speranza.
Seguiva di pochi mesi la morte di Ludovico
d’Ungheria (12 Settembre 1382), suo implacabile nemico, che con l’assassinio di
Giovanna, aveva vendicato la morte di suo fratello. Amante delle lettere, aveva
emanato buone leggi e abolito i duelli
giudiziari; denominato il grande per le sue virtù, per il suo valore e per le
vittorie conseguite. Aveva lasciato due figlie, Maria che gli succedeva, prendendo
il nome di “re” non di “regina” ed Edvige assumeva il regno di
Polonia.
Carlo III, invitato da alcuni magnati ungheresi
che non intendevano ubbidire a una fanciulla, lo avevano invitato a prendere
questa corona. Maria era scacciata e Carlo, recatosi a Buda si impadroniva del
regno, ma contro di lui era ordita una congiura e, finiva i suoi giorni, assassinato
(6 febbraio 1386), dopo quattro anni e cinque mesi dall’assassinio di sua zia
Giovanna I.
*) Giacinto
Battaglia (1803-1861) drammaturgo, storico e giurista, autore del libro Giovanna I
regina di Napoli, Milano 1835.
GIOVANNA I
NEL GIUDIZIO
DI BOCCACCIO E
GIOVANNA I e II NEL
SARCASTICO RACCONTO
DI BRANTOME
|
G |
iovanni Boccaccio, giovanissimo, era stato
mandato dal padre, a Napoli per imparare l’arte del commercio, ma egli aveva
interesse per la poesia e letteratura e si era legato in amicizia a Petrarca, e
frequentando la Corte del re Roberto, aveva potuto conoscere le due sorelle
Giovanna e Maria (amata e celebrata “Fiammetta” e ”Filocopo”) e descrivere Giovanna: “E’ di gran bella presenza, con un viso gioioso e un modo di parlare mite e grazioso e tutto ciò che fa è
pieno di grandezza e maestà reale e ugualmente si mostra umana, familiare
pietosa, buona e dolce tanto da non dare l'impressione di essere una regina, ma
compagna di chi l'avvicina.
Che cosa si
può augurare di meglio a un monarca di tal fatta? A voler parlare della
integrità della sua anima sarebbe un discorso troppo lungo; come ho detto sui
tanti doni di grazia che possiede, la stimo come Dama veramente eccellente e la
reputo ancora di più per la singolare ricchezza che porta all'Italia tale che
nessun altra nazione ne ha mai visto di somigliante.
Non avendo
alcun altro erede di miglior sesso, così, per ordinanza dell'avo fu
dichiarata erede del regno. Con l'aiuto di qualche valente capitano aveva fatto
punire i malfattori con giuste pene che nessuno dei precedenti re aveva fatto
poco o non aveva fatto per niente.
Saggia e
prudente era piuttosto caduta per tradimento che per sottigliezza di spirito era stata tormentata
da problemi domestici dei fratelli del re; qualche volta aveva subito guerre di
stranieri, in mezzo al suo reame, la fuga dell'esilio, i modi crudeli di
qualche marito, l'odio dei nobili, la cattiva fama non meritata, le minacce del
papa e altre infinite avversità che lei era riuscita a superare con un fermo e
invincibile coraggio; sopportando con una meravigliosa costanza”.
Di tenore sarcastico era stata la descrizione di Pierre
de Brantome, (Des Dames, Paris, 1875),
di cui diamo la traduzione.
Per distrarmi un po’ dai discorsi sul nobile sangue
di Francia, mi ha preso la fantasia di scrivere delle due regine, Giovanne di
Napoli, che, essendo uscite da questo nobile sangue di Francia, io ne voglio
parlare; sì che il racconto che si potrà fare su di esse, con una buona e ben
distinta penna, riuscirebbe piuttosto molto forte e gradevole, in quanto il
soggetto è tale.
Comincerei da Giovanna figlia di Carlo duca di
Calabria e Maria di Valois che aveva per primo marito Andrea; molti dicono che Andrea non soddisfacesse
troppo i bisogni notturni della regina, come il disordinato appetito della dama
avrebbe desiderato, sebbene egli fosse giovane, gagliardo e in buona salute.
Giovanna era uscita dalle propaggini di Roberto,
di cui hanno parlato molti scrittori del tempo tra i quali Boccaccio e
Petrarca. E’ ben vero che chi ha scritto la Storia
di Napoli ha detto forse tanto,
vorrei dire troppo, divertendosi a dir male di lei (Brantome aveva consultato
Collenuccio ndt.), secondo il costume
degli storici italiani, che sono stati gran ladroni della gloria e del
linguaggio di noi francesi. Ecco cosa dice questo storico di lei dedita, in
pieno, all’amore.
Come primo marito aveva sposato Andreasso, cugino
di secondo grado e dopo aver tenuto
insieme il regno, se n’era disgustata e stando ambedue nella città di Aversa, una
notte lo aveva fatto chiamare, dicendo che voleva parlargli di un nuovo
avvenimento; recandosi da lei, era giunto presso un poggiolo che si trovava in
quel posto, e fu preso e strangolato per volontà e incarico della regina, sul
detto poggiolo.
Molti dicono che non soddisfacesse troppo le
richieste della regina, ai suoi bisogni notturni, sebbene fosse giovane,
gagliardo e in buona salute, come l’appetito disordinato della signora
desiderava. E si raccontava ancora all’epoca a Napoli, che la detta signora,
facendo un lungo cordone d’oro assai grosso, Andreasso le chiese perché faceva
quel cordone. Lei rispose sorridendo che
lo faceva per appenderlo.
Lei lo considerava in sì poco conto che non si
era trattenuta dal dire tali parole alle quali Andreasso, come semplice e buon
uomo che egli era, non diede alcun peso, ma ben presto ne seguì l’effetto. Di
ciò lei ritenne di giustificarsi con Luigi d’Ungheria, fratello di Andreasso;
ma il re a tali giustificazioni non dava alcun peso e le scrisse: “La tua vita disordinata precedente. la
signoria del reame che tu hai voluto tenere nelle tue mani, la vendetta di
quelli che hanno colpito tuo marito, non perseguiti, l’altro marito lussurioso
che hai sposato e le scuse che dopo mi hai inviato, sono piene prove che tu sei
stata partecipe e complice della morte di tuo marito”.
L’uomo che aveva sposato era un suo cugino,
figlio del principe di Taranto che lei aveva molto amato durante il matrimonio
con suo marito, con cui era stata legata per tre anni in grande intimità; ma
egli morì estenuato dagli eccessi troppo spesso impiegati al servizio della
regina, in favore della signora Venere.
Poi lei sposava per terzo marito Giacomo di
Tarancon, infante di Maiorca che era stato tenuto in riserva, bel personaggio
disponibile trovato sul posto, che lei non aveva voluto portasse il titolo di
re, ma quello semplice di duca di Calabria. Perché lei aveva voluto dominare e
regnare da sola e non voleva avere compagni con i quali dividere il potere, e lui
si era dedicato a un’altra donna, perché di più bella non potesse avere che la
sua, ancora più bella e lei lo fece morire, facendogli troncare la testa.
Per quarto marito lei prese Ottone di Brunswick, della
razza di Sassonia che era un gran capitano che sposava nel 1378 Giovanna; ma Carlo
di Durazzo (Carlo III) detto Carlo della Pace, si era impadronito della sua
persona e dopo averla tenuta in prigione per qualche tempo, la fece mettere a
morte (1382).
LA PIAGA DEL
BRIGANTAGGIO
NEL REGNO RITENUTA
DA DUMAS
ELEMENTO NATURALE
|
M |
entre in
Italia spadroneggiavano le “compagnie
d’armi o di ventura”, scriveva Dumas,
“non si cerchi una data, il
brigantaggio meridionale è sempre esistito”.
Quando Luigi era in Sicilia (1357), nelle
province del principato di Avellino e Salerno pullulavano masnadieri e banditi,
infestando e taglieggiando liberamente lungo le strade, impedendo la libera
circolazione dei viandanti, in modo che il commercio ne risentiva notevole
danno.
Il numero dei ladroni e banditi, si era reso così
insolente che il Giustiziere, non potendo fermarli o espellerli ed estirparli, fu
costretto a chiedere al governo di concedere un indulto e fu dato incarico a
Raimondo del Balzo, conte di Soleto, di assolvere questo compito; ma i
masnadieri lo ripudiarono obbligando del Balzo a combatterli; il governo era
snervato di forze e combattuto da ogni lato, immiserito e minacciato dalle
compagnie armate di ladroni e banditi, e indotto a sottostare alla protezione e
autorità della santa Sede.
Il brigantaggio (1358) infieriva sempre più in
molti luoghi del regno, spargendo lutti,
terrore e desolazione. I sindaci
di Napoli concorsero ad offrire alla regina venticinquemila fiorini (1358), per
l’espulsione dei masnadieri dal regno. Il governo aveva mandato negli Abruzzi
settecento uomini a cavallo e altrettanti fanti sotto la guida e il comando di
strenui capitani e nello stesso tempo aveva dato agli aquilani la facoltà di fabbricare fortificazioni nel loro territorio,
per difendersi dalle masnade.
Una nutrita banda di duecento fuoriusciti, dopo
aver devastato le ubertose campagne di Nola,
si impadronirono delle terre di Palma, ma furono presto scacciati; avidi di
bottino i ladroni saccheggiarono le
terre di Eboli e avanzarono fino alla Terra d’Otranto, ponendo a soqquadro la città di Mottola, come riferiva
la Cronaca di Filippo Crisullo (mns.).
Intanto parecchi baroni non si vergognavano a
dare protezione e ricetto agli stessi banditi
e le strade divenute malsicure al transito per i pacifici viandanti. Le due province del Principato erano le più infestate dai masnadieri i quali, divenuti
baldanzosi. saccheggiavano e uccidevano e spesso mettevano tributi e
combattevano le regolari milizie.
Riuscito vano ogni sforzo del Giutìstiziere per
estirpare o ridurre i malandrini, i sovrani diedero nuovamente incarico al gran
camerario, conte del Balzo, di fare delle concessioni ai briganti, purché
desistessero dalle loro infami rapine. Ma ogni tentativo, per mancanza di
danaro (il papa per ottenere il censo, minacciava la scomunica!), era riuscito
inutile e non rimaneva altro che attendere tempi migliori!
Su questa piaga, e sulle sue origini, Alessandro
Dumas (*) si era così espresso.
Non si cerchi una data più o meno recente al brigantaggio napoletano: è sempre esistito! Il brigantaggio negli Abruzzi, nelle Puglie,
nella Basilicata , nella Terra di Lavoro è non solo indigeno, ma
indistruttibile. Dove, il gladiatore Spartaco era fuggito dall’anfiteatro di
Capua? Appunto, dove ha scorazzato fino ad oggi Pilone, alle falde del Vesuvio.
Dove raduna un esercito? Dove trova
settantamila soldati? Fra i Bruzi, in Calabria. Dove Crasso riesce a
raggiungerlo e a schiacciarlo? Sul Silaro, oggi Selo, dove Manhès nel 1810 fece
le sue più terribili spedizioni contro i briganti.
Ogni terra, secondo la sua conformazione delle
pianure. delle valli o montagne, ha i
suoi naturali prodotti. L’Italia meridionale produce naturalmente frumento
nelle pianure, olio nelle valli, briganti sulle montagne. Un proverbio
calabrese dice: “i briganti crescono con
le foglie”. Ed infatti, ogni anno, scacciati dall’inverno, i briganti si
riducono a casa, come i lucchesi, dopo essere andati a far le messi in Corsica,
ed ogni anno, con le foglie. i briganti ri-pullulano. Nell’Italia meridionale
si è briganti come si è muratori, conciatetti, calderaio, maniscalco o sarto.
Il brigante ha la sua casa a cui, come abbiamo detto, torna l’inverno; ha
famiglia, amici, un confessore. Nessuno pensa a denunziarlo perché tutti
farebbero quel che fa. “Mio padre era
fabbro; sono fabbro; mio padre era brigante; sono brigante”. Quali sono i due rimproveri che
si fanno più amaramente a Giuseppe (Bonaparte), durante i suoi due anni di
regno? –D’aver fatto fucilare il marchese Rhodio e impiccare il duca
Fra-Diavolo. Che mali avevano fatto, infelici, uno per esser fucilato, l’altro
per essere impiccato? Nulla; erano stati briganti; non altro. Qual nome danno i contadini ai soldati
italiani che oggi, nell’Italia meridionale dan la caccia ai briganti? “La corte”. Come chiamano i banditi che
son cacciati dai soldati? “I fratelli”.
Tutta la difficoltà, tutto l’accanimento, tutta l’eternità della lotta è in
queste due parole. Per il contadino, per il colono, per il cafone dell’Italia meridionale, l’uomo della legalità è stato e sarà
sempre “la corte”. L’uomo del furto,
della rapina, dell’incendio è stato e sarà sempre “il fratello”.
Risalendo all’epoca dei viceré spagnoli, quando
son venuti a rappresentare i loro sovrani
Napoli, trovarono il brigantaggio già rigoglioso, stabilito sulle stesse
basi e alimentato dagli stessi mezzi che lo tengono vivo. Cominciamo dal duca
d’Alcalà, che venne a Napoli nel 1559; suo primo atto fu di emanare contro i
briganti una prammatica che permetteva di
perseguitare i fuoriusciti, con licenza ai soldati dello Stato nel caso si
rifugiassero in questo.
Passando al conte d’Olivares; venne a Napoli nel
1559 e pubblicò un’ordinanza che puniva
con la pena di morte coloro che taglieggiavano con lettere, richieste oppure
bruciando seminati o uccidendo animali di coloro che sono stati minacciati con
richieste di danaro devono essere puniti con la pena di morte ... con una
taglia di cento ducati per quelli che li uccidessero ... tenendo sotto
sorveglianza i parenti fino al quarto grado.
Passando al duca d’Alba, figlio del famoso duca,
con la sua prammatica del 1622, che stabiliva che i delinquenti che bruciano campi o mandano
lettere o richieste di riscatto possono essere ammazzati, ancorché fossero
mediatori, come anche si demolissero le loro case e si bandissero i parenti dal
regno ... . Il suo successore don Ferrante Afan de Rivera, duca di Alcalà,
aveva trovato il regno talmente funestato dal brigantaggio che aveva aggiunto
alle precedenti prammatiche ne aveva emessa altra che confermava la precedente
del duca d’Alba disponendo la pena di morte per coloro che li nascondevano e
altrettanto ai parenti di secondo grado per coloro che non li consegnassero
alla giustizia.
Il duca di Medina, che aveva introdotto (1637) la
carta bollata, aveva messo numerose tasse, anche quella sulle meretrici; e aveva
emesso quattro prammatiche contro i
banditi, che ripetevano le precedenti, e il suo successore ammiraglio di
Castiglia, aveva fatto altrettanto contro banditi e vagabondi; ma tutto era
rimasto senza effetto, il brigantaggio non era stato neanche scalfito.
Altrettanto quando era salito al trono Carlo III,
e il suo ministro Tanucci (il Colbert di Carlo III), giustiziato con la
decapitazione, aveva fatto pubblicare un manifesto del seguente tenore: “Non si vedono che briganti per le strade e
per le campagne; ... non si vede che brigantaggio, scelleraggine, incendi
commessi da ogni parte; ... Si comanda ai magistrati di arrestare e uccidere i
disturbatori della pubblica pace ... ma, potendo ciò essere insufficiente, si
consiglia di viaggiare in carovane e bene armati”.
Con il successore di Carlo III, Ferdinando, i
briganti erano aumentati.
Dumas poi prosegue raccontando, alla sua maniera
accattivante, le storie dei principali
briganti da Angiolino del Duca, povero contadino, servo di un barone che lavorava con una mula che era morta; il
padrone glie’aveva fatta pagare; Angiolino, che non aveva mai commesso nessuna violenza, così taglieggiato dal suo
padrone, era finito in una banda di ladroni di cui era divenuto capo.
Dumas, da Angiolino arriva fino a Cipriano La
Gala, con i quali il brigantaggio meridionale compiva furti sulle strade,
lettere di ricatto, incendi di masserie e uccisioni di greggi; con il re Ferdinando, diceva Dumas,
il brigantaggio prendeva un colore nazionale, Infatti Ferdinando con la triste
sconfitta avuta da Championnet nel 1798, aveva lanciato un appello al
brigantaggio, per supplire alla guerra con il pugnale, l’imboscata e l’insidia;
da costoro, proseguiva Dumas, uscirono gli eroi che furono Mammone, Fra Diavolo
Sciarpa, De Cesare, Boccheiampe ecc. .
* * *
La situazione attuale, in
Italia su come sono ben insediate e si convive con le organizzazioni mafiose, è
arcinota e la ndrangheta (calabrese) vanta
il primato in Europa dello spaccio di stupefacenti.
Con questa eredità l’Italia è
divenuto un Paese dove regnano truffe, grandi (al primo posto per quelle ai
finanziamenti dell’U.E.) e piccole quotidiane, e malavita; i furti delle
borseggiatrici sono compiuti da donne incinte, per non essere arrestate; con
una Giustizia in stato comatoso, con processi, grandi che durano una vita e le
sentenze arrivano quando gli interessati sono morti e piccoli che durano anni;
essa si è tanto incancrenita che gli avvocati si sono assuefatti e neanche
protestano; le città non sono più sicure e le periferie in degrado, con il
Governo di destra (ma quello di sinistra aveva lasciato che ne fossero poste le basi!), che non fa altro che
aumentare pene e reati, con le carceri sovraffollate che danno luogo a
un elevato numero di suicidi, anche tra le guardie carcerarie; ma il ministro
assicura che i suicidi sono nella norma; e i problemi rimangono.
La sua riforma, che doveva
travolgere l’intero sistema, è ridotta alla divisione delle carriere tra
giudici della difesa e giudici dell’accusa, che è in re ipsa, nel sistema accusatorio che ha sostituito il sistema
inquisitorio, come in tutti i paesi civili. Niente nuovi codici,
snellimento delle procedure, sistema informatico che non funziona e invece di
cambiarlo lo si lascia non funzionare!
L’Italia è un Paese
conservatore contrario a ogni riforma e non si porta al passo con i tempi: il
ponte di Messina potrebbe servire da emblema; si è messa di traverso anche la magistratura!;
come diceva Sergio Marchionne se in Italia si presenta un progetto, vi sono
dieci no ad opporsi; e abbiamo un partito che si presenta come progressista e riformista, che di fatto è contrario a ogni forma di progresso e a
ogni tentativo di riforma!
*) A. Dumas, Cento anni di Brigantaggio nelle province
meridionali d’Italia, Napoli, 1863.
*) Scriveva
Matteo Camera, che intorno all’anno 1339
erano state introdotte in Italia da Ludovico Visconti, compagnie d’armi,
ovvero masnadieri o predoni sotto il nome di Compagnia di San Giorgio e si erano formate man mano sotto la
scorta di Corrado Wolfard detto Lupo, del monaco Monreale e del conte di Landau
(indicato dagli storici come conte Lando) ed altri. Tutti costoro vennero poi assunti
dai vari Principi e Comuni e fra gli altri, Corrado Lupo (di nome e di fatto, servì ora gli uni ora gli altri con la sua forte
banda detta la gran Campagna, ma senza legarsi con nessuno M. Camera).
LA SUCCESSIONE
DI DUE BAMBINI
LADISLAO E LUIGI
SOSTENUTI DA DUE PAPI
|
C |
arlo III, morendo, lasciava una figlia, Giovanna di quindici anni
e un figlio di poco più di dieci anni, Ladislao; la madre Margherita mandava
come ambasciatore Carlo Dentice dal papa Urbano, per chiedere, dimenticando le
offese di Carlo, la sua protezione per il bambino e per il regno; il papa nominava come
Confaloniere, Ramondello Orsini e con il nunzio, vescovo di Monopoli, mandava
per sostegno di Ladislao, ventimila ducati.
Intanto Margherita prendeva le redini del governo,
facendo favoritismi che non erano accettati dai nobili e dal popolo, che creavano
una nuova magistratura detta degli Otto
signori, per vigilare sulle estorsioni compiute dai ministri regi; sebbene
questa magistratura fosse dispiaciuta alla regina, ognuno di costoro,
giornalmente, assisteva ai tribunali, per impedire violenze e abusi da parte
dei ministri.
Ma i mali del regno non erano terminati in quanto,
ad Avignone, presso il papa Clemente V, con la madre Maria, si trovava il
figlio di Luigi d’Angiò, adottato da Giovanna, anch’egli Luigi (II), che
chiedeva al papa di concederle il baliato
(che preludeva alla investitura del regno alla maggiore età); e il papa
concedeva la bolla (1385).
Giunta la notizia a Tommaso Sanseverino, Gran
Contestabile del regno, che era stato legato a Luigi d’Angiò e riconosceva
segretamente l’antipapa Clemente, egli si appropriava del titolo di viceré di Luigi II d’Angiò e
approfittando dei torbidi di Napoli,
convocava in Ascoli un parlamento di baroni di Napoli che, a somiglianza degli
“Otto”, nominavano “Sei” deputati del regno, a cui si
sarebbe unita la gente armata, nella città di Montefuscoli.
Nello spazio di due mesi, si riunivano
quattromila cavalieri e duemila fanti che si accampavano presso la città di
Aversa a due miglia da Napoli, da dove mandavano Pier della Mendolea, per
sentire se gli “Otto” volessero
acclamare Luigi. Ma essi risposero che non intendevano venir meno alla fede
data a Ladislao, offrendo a Margherita la difesa della città.
Era il mese di settembre e gli accampati ad
Aversa impedivano non solo che giungessero i viveri e la frutta, ma impedivano
la vendemmia, per cui quelli della città incominciarono a tumultuare recandosi
al palazzo della città, posto nel campanile della chiesa di san Lorenzo, protestando presso i deputati degli “Otto”, che per acquietarli si
impegnarono a chiedere agli avversari, una tregua.
Ma la regina che odiava gli “Otto”, intendeva farli trucidare dal popolo e si era rivolta
all’arcivescovo Niccolò Guindazzo e all’abate Sanseverino e altri religiosi; ma
questa voce si era sparsa tra il popolo e costoro furono sopraffatti.
I torbidi non si esaurirono in quanto la regina
era stata avvertita che giungeva in suo aiuto, Ramondello Orsini, che si
trovava a Capua; ma la regina, non pensando più agli “Otto”, si rivoltava contro i cavalieri della parte angioina, mentre
era avvertita che in aiuto del Sanseverino erano giunte due galee con
venticinquemila fiorini mandati da Luigi II; per cui, spaventata, si ritirava
col figlio Ladislao, in Gaeta.
La regina pensava al modo di ristabilirsi nel
regno e alcuni mercanti le avevano parlato di Manfredi Chiaromonte, conte di
Modica, della potente famiglia di Sicilia che aveva appena acquistato l’isola
di Gerba, da cui ricavava grandi ricchezze, che aveva una figlia di dieci anni
di nome Costanza, che poteva esser presa in moglie da Ladislao.
La regina mandava subito in Sicilia il conte di
Celano e Bernardo Guastaferro, per trattare il matrimonio e Chiaromonte mandava
la figlia Costanza a Gaeta, accompagnata da molti suoi parenti che portavano
una ricca dote, gioie, argenti e tappezzerie di estremo valore; appena
terminati i festeggiamenti del matrimonio, il papa Urbano VI moriva (1389) ed era eletto Pier Tomacello, col nome di Bonifacio
IX; il nuovo papa, l’anno seguente (1390), concedeva a Ladislao l’investitura
del regno e mandava il cardinale di Firenze per l’incoronazione, che ebbe luogo
il mese di maggio a Gaeta.
A Napoli infatti vi era
monsignor Mongioja che con la carica di viceré rappresentava, per conto del
papa Clemente, Luigi II d’Angiò, il quale però si era alienato le simpatie dei
napoletani per i suoi modi superbi di comportarsi; essi avevano incaricato
Baldassar Cossa, futuro papa, di recarsi dal papa Clemente, perché Luigi fosse mandato a Napoli, altrimenti Mongioja gli avrebbe fatto
perdere il regno.
Luigi si imbarcava con un’armata di venti navi a
Marsiglia, giungendo il 14 agosto dopo
aver subito una tempesta, nella chiesa di santa Caterina e, con gran concorso
di nobili e popolo, gli venivano offerte le chiavi della città; fu accompagnato
con gran baldacchino da otto signori dei cinque Sedili a Castel Capuano, dove il giorno seguente riceveva l’omaggio
di molti baroni e di Tommaso Sanseverino che aveva al suo seguito
milleottocento uomini a cavallo.
Luigi convocava nella chiesa di santa Chiara un
parlamento che a richiesta di Ugo Sanseverino, stabiliva che si dovessero
mantenere a spese dei baroni e del popolo il servizio di dieci galere e mille
uomini armati. In proposito il Costanzo commentava che si parlava di un numero di mille cavalieri, quando in tutto il regno
non si poteva metterne insieme neanche per fare una giostra !
Mentre a Napoli si verificavano questi
avvenimenti, la regina Margherita, con l’avvenuto matrimonio di Ladislao,
disponendo di grosse somme di danaro, aveva chiamato a Gaeta i principali
baroni, ai quali comunicava di voler
scacciare Luigi dal regno; ma era prevalsa l’idea di andare ad assaltare i seguaci
dei Sanseverino, che per i loro grandi feudi costituivano l’appoggio di Luigi.
L’esercito di Ladislao, era comandato dal
principe Ottone di Brunswick, che recatosi in Puglia, ad Ascoli era stato
sorpreso e disfatto da Tommaso Sanseverino, il quale però, non aveva saputo
usufruire della vittoria, in quanto aveva liberato i principali baroni col
riscatto, quando avrebbe potuto scacciare Ladislao dal regno (Brunswick moriva
nel 1392 ed era sepolto a Foggia).
Anche la fortuna avuta da Margherita con il
matrimonio di Ladislao con Costanza Chiaromonte precipitava; moriva infatti il
padre Manfredi Chiaromonte (1390).
In Sicilia moriva il re Federico III d’Aragona,
che lasciava una piccola figlia, Maria, presa in moglie dal duca Martino di
Monblanco, fratello di Giovanni d’Aragona; costui, si era recato con una grossa
armata in Sicilia e si impadroniva di Palermo e della Sicilia, togliendo tutte
le ricchezze ai Chiaromonte; per di più il padre di Martino, aveva come amante
la vedova di Manfredi Chiaromonte, per cui Margherita, o perché avesse ritenuto
poco onorevole che il figlio avesse per moglie la figlia di una concubina o
forse per la situazione che si era creata, avesse ritenuto dargli un’altra
moglie, indusse Ladislao a recarsi a Roma a chiedere al pontefice la dispensa per
ripudiare Costanza. Ladislao non solo otteneva dal pontefice la dispensa per il
divorzio, ma anche una buona quantità di danaro per far la guerra a Luigi.
Ritornato Ladislao a Gaeta, la domenica si era
recato con l’infelice Costanza, che
pensava di andare a messa, al vescovato, e si sentiva leggere la bolla di
divorzio del papa vedendosi privata degli onori di regina e accompagnata da una
donna vecchia e due damigelle, in una casa privata, dove le mandavano ogni
giorno da mangiare.
Ladislao
non aveva mancato di avvertire i suoi baroni di tenersi pronti per la guerra,
per la prossima primavera; ma egli disponeva di tremila cavalieri e
milleseicento fanti con i quali non poteva mettere sotto assedio Napoli,
sottomessa a Luigi, ma la sola città dell’Aquila, dove si diresse (nel luglio
1293) ben accolto dalle popolazioni
degli Abruzzi. Gli aquilani, non potendogli resistere, gli offrirono
quarantamila ducati e Ladislao se ne tornava a Gaeta licenziando i baroni.
Si era
preparato, per l’anno successivo (1394)
all’assedio di Napoli, ma, nel bere vino, era stato colto da malessere ed era corsa voce
di un avvelenamento e il suo coppiere Gola di Fulco era morto alla stessa maniera;
Ladislao era stato vicino alla morte, era guarito ma era rimasto balbuziente
per tutta la vita.
Collenuccio
riporta il fatto in maniera diversa, dicendo che balbettava dalla giovinezza, per essergli stato dato un veleno per
il quale era stato in pericolo di vita; si curava mettendosi nel corpo dei muli,
ai quali erano state tolte le interiora, perché quel caldo avrebbe fatto
risolvere quel veleno.
Ladislao,
scriveva Collenuccio, per il timore di essere avvelenato, indossava abiti
modesti e si recava negli alloggiamenti dei soldati a mangiare il loro cibo rusticano,
senza alcun fasto o pompa regale.
Luigi
d’Angiò, non potendo fare affidamento sui soccorsi francesi, era propenso alle
trattative e aveva mandato il vescovo monsignor di Murles da Ladislao, per
chiedere la pace; proponendo il matrimonio con la sorella di Ladislao e che
ognuno sarebbe rimasto nel possesso di quanto posseduto, con restituzione dei
beni ai napoletani e non ai baroni, che avevano militato contro di lui.
Queste
richieste non furono accettate da Ladislao in quanto Luigi possedeva solo una
piccolissima parte del regno e non avrebbe avuto modo di beneficare i baroni
che lo avevano servito, per cui monsignor Murles se ne tornava senza aver nulla
concluso e riferendo tutto ciò che era stato detto. Luigi, scosso da quanto gli
era stato riferito, aveva pensato alla guerra e rivolgendosi ai seguaci dei
Sanseverino era messa sotto assedio Aversa, che appoggiava Ladislao.
La città
resistette per tutta l’estate ma giunto l’inverno, il Contestabile Tommaso
Sanseverino che comandava l’esercito, pur togliendo l’assedio, fece in modo che
gli abitanti non potessero coltivare i terreni; mentre Ladislao, accompagnato
dal duca di Sessa, Marzano, e altri baroni, si recava a Roma, dal papa
Bonifacio IX, per chiedere soccorso e per ben disporlo, donava ai suoi nipoti
le contee di Sora e di Avito e il papa soddisfatto gli concedeva gran quantità
di danaro, ciò che fecero anche i cardinali più ricchi che speravano di avere
delle investiture per i loro parenti; e Ladislao tornava carico di danaro per affrontare la guerra in primavera.
MENTRE LADISLAO
RAFFORZA
LA SUA POSIZIONE
LO SCISMA
PROSEGUE
CON L’ELEZIONE
DI PAPI E ANTIPAPI
|
L |
adislao,
sempre sul piede di guerra, tentava (1395) un altro assedio di Napoli
accampandosi a un miglio di distanza, in località Ogliuolo (attuale Poggioreale)
con tre galee nel mare, mandatigli dal papa Bonifacio IX; ma, non avendo questo
assedio alcun esito, si ritirava a Gaeta.
Tommaso
Sanseverino suggeriva a Luigi d’Angiò di sposare la figlia di Marzano, duca di
Sessa, che aveva feudi che circondavano Gaeta, per tirarlo dalla sua parte e
aveva ottenuto conferma, quando Ladislao, venutone a conoscenza, mandava gente
ad occupare le terre del duca, il quale, costernato riusciva, ad ottenere un
anno di tregua senza procedere al matrimonio.
Ladislao,
probabilmente preso da scrupolo di coscienza, si ricordava della moglie
Costanza ripudiata e abbandonata e da tutti amata e compianta, e la faceva
sposare dal conte di Capua, Andrea d’Altavilla, suo familiare; Costanza, commovendo gli astanti e lo stesso
Andrea, gli diceva: Andrea di Capua, puoi
ritenerti il più avventurato cavaliere del regno, per avere per concubina la
legittima moglie del re Ladislao tuo signore. Ladislao,
dopo aver ridotto alla sua obbedienza il duca Marzano di Sessa, (1397),
nell’anno successivo stringeva ancora d’assedio per mare e per terra Napoli.
Luigi che vi era rinchiuso, poiché cresceva la fame e non riusciva ad avere
aiuti da Sanseverino e dal duca di Venosa (figlio di Sanseverino), decise di
ritirarsi nel principato di Taranto. Egli aveva mandato Barnabò Sanseverino ad
Avignone per chiedere soccorsi al papa Clemente il quale gli concedeva di
assoldare sei galee che giungevano a Napoli, dove i capitani, saputo che Luigi si
stava recando a Taranto, facevano rotta per quella città.
Qui, Luigi,
al suo arrivo, aveva trovato Ramondello Orsini che si era investito del
principato; rimasto affranto dal dolore, egli s’imbarcava e annunciava a Ladislao la sua partenza,
chiedendogli di liberare il fratello Carlo, con i francesi che erano tenuti
prigionieri in Castelnuovo; ciò che fu subito accordato e i due fratelli si
ritiravano in Provenza.
Ramondello
Orsini a Taranto, come già accennato, si era investito del titolo di principe, senza
prestare giuramento a Ladislao, il quale vi si stava recando con l’esercito,
per togliergli il feudo; Ramondello con le sue truppe gli era andato incontro e
giunto a Canosa, staccatosi dalla truppa con il suo stendardo, si presentava a
Ladislao facendo abbassare lo stendardo, mentre egli, sceso da cavallo, andava
a baciargli la mano, dicendogli che “le
sue armi valessero con i nemici di sua maestà e che poneva nelle sue mani tutto
il suo esercito”.
Così
pacificato, Ladislao, ritornava a Napoli, dove gli giungeva un’ambasciata del
duca Guglielmo d’Asburgo, che gli chiedeva la mano della sorella Giovanna e
questa era accettata.
Prima che
Giovanna fosse mandata ai confini dell’Austria, Ladislao sposava Maria, sorella
di Giano, re di Cipro e poi si imbarcava a Manfredonia per accompagnare la
sorella dai baroni, mandati dal duca d’Austria; egli approfittava del viaggio, per
appropriarsi della città di Zara,
appartenente al regno d’Ungheria (avendo in animo di conquistare questo regno),
dopodiché si recava dalla nuova moglie a Napoli con la quale poteva convivere
poco tempo, per la sua improvvisa morte
(1404).
Ladislao,
sicuro finalmente del regno, aveva dovuto recarsi in Calabria in quanto un
esponente della casa Ruffo parteggiava ancora per Luigi d’Angiò; al ritorno, maturava
la sua vendetta contro Tommaso Sanseverino che aveva anche lui sostenuto Luigi
d’Angiò e lo faceva strangolare con il figlio, duca di Venosa e Gasparre conte
di Matera, facendo buttare i loro corpi nel fossato di Castelnuovo, in pasto ai
cani.
In questo
periodo (1404) moriva anche il papa, Bonifacio IX, ed era eletto il nuovo papa, Cosimo Migliorato
di Sulmona che prendeva il nome di Innocenzo VII.
Ladislao dopo
essersi vendicato con i Sanseverino, sostenitori di Luigi d’Angiò, passava a
vendicarsi, per lo stesso motivo, dei Marzano; il duca di Sessa era morto e
aveva lasciato un figlio fanciullo, sotto la tutela del conte d’Alife, che
aveva una figlia, al quale Ladislao proponeva il matrimonio di questa figlia
con un suo figlio bastardo, nominato principe di Capua, che il conte accettava;
alle nozze partecipava la vedova del duca Marzano con il figlio bambino che
Ladislao faceva imprigionare a Casteluovo; con l’eliminazione dei Sanseverino e
Marzano, i feudi di costoro li distribuiva tra i baroni che l’avevano servito.
Nel
frattempo moriva Ramondello Orsini principe di Taranto e Ladislao, nell’intento
di appropriarsi del principato, aveva occupato quelle terre e aveva pensato al
matrimonio con la principessa, che pur avendo quarant’anni e dei figlioletti piccoli, era ancora bella. Aveva
mandato Gentile Martorano per proporre il matrimonio e la principessa aveva
accettato la proposta, nonostante il parere contrario dei Sanseverino; egli
quindi, si recava a Taranto, dove si svolgevano i festeggiamenti del matrimonio;
dopo i festeggiamenti, volendo Ladislao visitare quelle terre, mandava la
regina a Castelnuovo; qui la novella sposa si trovava di fronte alla sorpresa
di due altre conviventi del re; una di
queste era la figlia del duca di Sessa, l’altra, chiamata “contessella”, con cui la nuova regina era obbligata a convivere.
In questo
tempo, era morta la regina Maria d’Ungheria e gli ungheresi che non soffrivano il regno di Sigismondo e lo avevano
imprigionato, si erano rivolti a Ladislao al quale avevano offerto il regno.
Ladislao,
avido di regni, era subito partito e imbarcatosi a Manfredonia, era tornato a Zara, quando gli giungeva la notizia
che Stanislao si era liberato dal carcere e stava raccogliendo un grosso esercito,
per cui, vendeva Zara ai veneziani e, soprggiunto Sigismondo, firmava con lui la pace e se ne tornava a
Napoli; era questo il motivo che sia lui, sia Giovanna, nei documenti,
aggiungevano il titolo del regno d’Ungheria.
Era il
periodo dello scisma della Chiesa con un papa, Clemente VII, ad Avignone e un
papa, Bonifacio IX a Roma; in Francia interveniva il re Carlo VI, con consulto
dell’Università di Parigi, per la sua cessazione, suggerendo ad ambedue i papi
di dimettersi; Clemente VII, che non
poteva opporsi al volere del re, per il dispiacere moriva (1394).
I cardinali
che si trovavano ad Avignone, riuniti, contro la volontà del re, eleggevano il
cardinale aragonese Pietro di Luna, col nome di Benedetto XIII (1394-1423); a
Roma era eletto (1404) Innocenzo VII che moriva (1406), ed era eletto il papa
Gregorio XII (1406-1415). Prima della sua elezione i cardinali avevano
concordato che il nuovo papa avrebbe rinunciato, come, anche il papa
Benedetto XIII avrebbe rinunciato ad Avignone, per eleggerne insieme un altro; ciò
per porre fine allo scisma.
Ma la
rinuncia non ebbe luogo, per l’ostinazione di Gregorio XII, e mentre Benedetto XIII
si ritirava nella sua patria in Aragona, mantenendo il titolo papale; era
convocato il concilio di Pisa (1408) che aveva una numerosa partecipazione; ma era
eletto un altro antipapa, Alessandro V (1409); questo antipapa era riconosciuto da tutti (ad esclusione dell’Aragona che riconosceva
il suo papa, Benedetto XIII), il quale era contrario a Ladislao e riconosceva come
re, Luigi d’Angiò.
Ladislao,
aveva mandato quattro galee a prendere Gregorio XII, il quale accompagnato da
due cardinali era stato portato con tutti gli onori a Gaeta, mentre Luigi
d’Angiò faceva portare Alessandro V, da
Avignone a Pisa, da dove questo lanciava la scomunica a Ladislao.
Intanto, il
papa Alessandro V moriva (1410), ed era subito sostituito dal nuovo papa, Giovanni
XXIII, il napoletano Baldassar Cossa, anch’egli favorevole a Luigi; egli si trovava a Bologna dove Luigi si era
recato a riverirlo, ricevendo danaro per assoldare galee genovesi.
Ladislao, venutone
a conoscenza, si recava a Roma, con numeroso esercito, col pretesto di volerla
occupare per il papa Gregorio XII, che si trovava a Gaeta, lasciando il comando a Perretto d’Ibreja, conte di Troia
e Gentile Martorano con tremila uomini, e portando con sé gli altri per
fortificare la frontiera del suo regno.
Ma a Roma
giungeva Luigi che scacciava il conte di Troia e si impadroniva di Gaeta,
scontrandosi con l’esercito di Ladislao a Rocca Secca e costringendo Ladislao a
ritirarsi. Luigi avrebbe potuto proseguire e conquistare il regno ma privo di
danaro e non potendo pagare i soldati, moriva (1412) lasciando tre figli; e
Ladislao poteva godersi il regno.
Egli pensò
di vendicarsi di Giovanni XXIII, invadendo nuovamente lo Stato della Chiesa, ma
Giovanni, dovendo recarsi in concilio, aveva chiesto per mezzo del cardinale
Brancaccio di Napoli, di pacificarsi, con la liberazione dal carcere di alcuni
suoi parenti imprigionati e col pagamento
di ottantamila fiorini.
Moriva in
quest’epoca, la regina Margherita, madre di Ladislao (1412), il quale rompeva
nuovamente, quanto inutilmente, la pace con il papa, rioccupando Roma (1413),
senza risultato.
Vi era
stato un insolito modo di avvelenarlo; Ladislao aveva come concubina la figlia
di un medico di Perugia, che per salvaguardare la figlia aveva suggerito
l’avvelenamento ungendo i genitali della
ragazza, con un’unzione pestifera, che
gli avrebbe procurato un maggior diletto, che non avrebbe fatto dimenticare al
principe quell’amore.
Ladislao, così
imbevuto, aveva incominciato ad essere travagliato dal mortifero e lento veleno;
decise di imbarcarsi a Ostia per andare curarsi a Napoli, portando con sé due
prigionieri, Paolo e Orso Orsini, sospettati dell’avvelenamento, che aveva fatto
incarcerare.
Giunto a
Napoli, era condotto in lettiga a Castenuovo, dove moriva il 6 agosto del 1414;
era vissuto trentanove anni e aveva incominciato a regnare a dieci, vissuti
quasi tutti sul piede di guerra, senza grandi conclusioni, ma aveva dato sfogo,
come si è visto, alla sua carica erotica che, evidentemente, serpeggiava in
famiglia; non avendo figli maschi, gli succedeva la sorella Giovanna, che, alla
morte del marito, come abbiamo visto, Ladislao aveva fatto tornare
dall’Austria.
VICISSITUDINI
DEL REGNO
DI GIOVANNA II
|
A |
Napoli si era recato Attendolo Sforza, che era
stato capitano di Ladislao, un bell’uomo dal fisico prestante, assunto dalla
regina al suo servizio.
La regina, aveva come amante Pandolfello Piscopo,
detto Alopo (calvo), fin da quando era in vita Ladislao; ma il rapporto era
stato tenuto nel massimo segreto, per non portarlo a conoscenza del fratello, perché
di bassa condizione (da alcuni ritenuto coppiere
da altri scudiero); ma alla morte di
Ladislao, Pandolfello, che non aveva più di ventisei anni, era stato elevato
alla carica di conte Camerlengo e Gran Siniscalco, con grande sdegno dei baroni.
Pandolfello, conoscendo la debolezza sensuale
della regina, se n’era ingelosito e le aveva riferito che Sforza fosse
sostenitore dei d’Angiò e stesse aumentando il numero dei soldati, per
impadronirsi di Napoli; trovando così il modo per farlo arrestare Sforza fu
messo in carcere, dove si trovava l’altro capitano, Paolo Orsino.
I baroni, gelosi del potere raggiunto da
Pandolfello, si erano rivoltati con la regina, assicurandola che Sforza fosse
valente e meritevole capitano, e il regno sarebbe caduto in grande sciagura se
i suoi soldati si fossero collegati con
quelli di Orsino, per liberare i loro capitani; ma ottenevano per risposta dalla
regina, che avrebbe fatto esaminare il caso da un giurisperito.
Giovanna II, nello stesso tempo, era stata spinta
dai baroni a prendere marito per aver prole e salvare il regno dalle varie
rivendicazioni; le era stato sottoposto il figlio di Ferrante d’Aragona, re di
Sicilia, che avrebbe potuto prestarle aiuto in caso di bisogno; aveva quindi mandato
un’ambasciata per il matrimonio col figlio; ma al ritorno le riferivano l’età del giovane principe, che aveva appena
superato i diciotto anni, mentre lei aveva superato i quaranta e l’idea di
questo matrimonio era saltata.
Si faceva quindi ricorso al conte Giacomo di
Borbone-La Marche, vedovo di Beatrice di Navarra, del sangue reale di Francia, il
quale era ritenuto innocuo e avrebbe potuto subire le disposizioni di Giovanna.
Pandolfello, ritenendo che questo matrimonio
potesse provocare la sua rovina, aveva cercato di correre i ripari e non solo
aveva fatto rientrare Sforza nelle grazie della regina, ma gli aveva fatto sposare
la sorella Caterina (Catella) con una ricca dote e la nomina di Contestabile.
Ma i baroni e ministri non accettavano che il
coppiere potesse avere tanto potere
sulla regina, e ritennero di far ricorso
al conte Giacomo, che doveva sbarcare a Manfredonia, dove molti si recarono ad
accoglierlo, guidati dal duca Giulio Cesare di Capua, che odiava la potenza di
Pandolfello e di Sforza; il duca di Capua incontrava a Troja e lo avvertiva del
pericolo che correva, di finire strangolato come Andrea, lasciando Giacomo sorpreso per ciò che gli era stato riferito.
Il giorno seguente, quando Giacomo era giunto a Benevento,
vi si era recato Sforza per portargli i saluti della regina, dicendogli, con eloquenza rustica e militare: “Illustrissimo conte, la regina, vostra
moglie si rallegra della vostra venuta e
vi aspetta con gran desiderio”.
Il re con mal viso, non rispose; Sforza infatti aveva commesso una duplice infrazione
di protocollo; prima perché non era sceso da cavallo e poi perché lo aveva
chiamato conte, mentre tutti gli
altri nobili lo avevano trattato da re;
alla destra di Giuliano erano il conte di Troja e il conte di
Sant’Angiolo, che si stavano allargando per far spazio a Sforza, ma Giacomo gli
aveva detto di non muoversi, non
lasciando così spazio, per farlo avvicinare a lui; quindi, Giacomo, sdegnato, si recava al castello
di Benevento, dove lo avevano seguito tutti i cavalieri, per baciargli la mano
come re.
Sforza stava salendo le scale e Capua lo rimproverava
per il suo ardire, e di non essere sceso da cavallo per salutarlo come re, come
avevano fatto gli altri baroni; ambedue si alteravano, mettendo mano alle spade;
mentre gli altri cercavano di spartirli, era sopraggiunto il conte di Troja, gran
Siniscalco della casa reale, che aveva
la potestà di punire gli insulti, che li faceva mettere in sicurezza; ma la sera,
mentre Capua era liberato, Sforza era messo in carcere.
Giovanna era stata informata di tutto e il giorno
seguente dovendo Giacomo entrare in Napoli, dispose che fosse accolto con un
ricco baldacchino, come avvenne, ricevuto a Castelnuovo, da Pandolfello e dagli
ufficiali della regina; e, trovandosi anche l’arcivescovo con i paramenti sacri,
celebrava il loro matrimonio che era festeggiato pomposamente con cena e balli,
e gli sposi salutati con le grida: “Viva
il re Giacomo e la regina Giovanna nostri signori” (1415).
A Giacomo era mantenuto il titolo di conte,
sebbene gli fosse stato dato l’incarico di Governatore generale del regno; la
mattina seguente, quando tutti credevano di vedere gli sposi allegri, si notava
che erano turbati, e dagli effetti, si resero conto del motivo. Pandolfello era
stato condotto a Castel dell’Ovo e, avendogli fatto confessare sotto tortura i
suoi delitti, era stato decapitato in Piazza Mercato e il suo corpo era stato trascinato
per la città e appeso per i piedi.
Nella Corte, tutti i cortigiani furono sostituiti
da francesi, con a capo un vecchio signore, Lavardin, che non faceva comunicare
con nessuno; ma quanto aveva rallegrato molti della fine di Pandolfello, tanto
aveva contristato il loro animo nel vedere la sorte della regina, e ancor più
il poco conto che di essi faceva Giacomo, che aveva affidato i principali
uffici di Gran Contestabile, Gran Camerario, Gran Siniscalco, ai francesi; più
di tutti, era rimasto sdegnato Giulio Cesare di Capua, che per i servizi che
aveva reso, pensava di essere gratificato con un incarico che non gli era stato
concesso.
Erano passati tre mesi senza che i nobili e
baroni, avessero potuto vedere la regina e si erano recati in frotta per
chiedere a Lavardin di volerla vedere; ma quegli rispose che la regina era
impedita con il re; e il popolo rumoreggiava, e per quietarlo, Giacomo usciva
con volto allegro, dicendo che la regina
stava poco bene che se si desiderava qualche grazia, sarebbe stata concessa;
il popolo aveva risposto che voleva che
fosse ben trattata; il re non mancò di rispondere che per loro amore,
sarebbe stata ben trattata.
Giulio Cesare di Capua che era molto sdegnato con Giacomo, aveva pensato di procurarsi la sua
fiducia e si era offerto di ammazzarlo e liberarla dalla schiavitù in cui era
stata ridotta; ma la regina, memore che era stato il primo
motore dei suoi danni, aveva finto di accettare e aveva riferito tutto al re
per renderselo benevolo.
La richiesta di rivederla era stata accolta e
Capua si era recato per ripeterle la fatale offerta, ma Giacomo era nascosto
sotto il letto e dopo aver sentito dalla bocca di Capua la sua proposta e il
modo di eseguirla, mentre Capua accompagnato dal suo segretario, stava uscendo
dal castello, Giacomo ordinava di arrestarli e furono immediatamente decapitati
in Piazza del Mercato.
GIOVANNA II
LIBERATA
DALLA SCHIAVITU’
DI
GIACOMO CADE
NELLE MANI DI
SERGIANNI CARACCIOLO
|
I |
l re Giacomo non aveva tralasciato di tener
rinchiusa la regina, alienandosi maggiormente la diffidenza dei baroni; tutto
ciò avveniva nell’anno 1416; ma nel mese di settembre Giovanna aveva avuto il
permesso di uscire, per desinare nel giardino di un mercante fiorentino (che si
trovava dove successivamente sarebbe sorta S. Maria della Scala).
Essendo la
circostanza, venuta a conoscenza del popolo e dei nobili, tutti si erano
recati, in folla, per salutarla; ma era stato notato che la regina aveva le
lacrime agli occhi e Ottino Caracciolo e
Annecchino Mormile, gentiluomini di Portanova, con altri, decisero di liberarla
dalle mani del re.
Mentre Giovanna era accompagnata con un carro
(non vi erano ancora le carrozze), per tornare al Castello, ordinarono al carrettiere di prendere la via
dell’arcivescovado, dove fu condotta al grido di “viva la regina”; e lei aveva detto loro: “miei fedeli, non mi abbandonate, che pongo il regno e la mia vita nelle
vostre mani”. Giacomo, avvertito, aveva cominciato a temere per la sua vita, si era
ritirato a Castel dell’Ovo, ma poi era stato portato a Castel Capuano, dove la
regina aveva ricostituito la sua nuova Corte.
Giovanna II aveva messo gli occhi addosso a
Sergianni Caracciolo, nominato gran Siniscalco, che aveva più di quarant’anni, ma era bellissimo e gagliardo di
persona, cavaliere di gran prudenza; capo del Consiglio di Giustizia, era
stato nominato il dottor Marino Boffa, gentiluomo di Pozzuoli, facendolo
sposare con Giovannella Stendardo, proprietaria di molte terre; e nominato gran
Camerlengo, il conte di Fondi della casa
Gaetani.
La Corte era
riempita di giovani belli e valorosi, tra i quali si distinguevano Urbano
Origlia e Artuso Pappacoda; Sforza era stato liberato dalla prigione e gli era restituito
l’incarico di Contestabile; Giovanna essendo
innamorata di Sergianni, per poterselo godere a suo modo, ogni giorno pensava a
come liberarsi del re.
Sergianni, prudentemente le aveva sconsigliato di
evitare di usare la violenza, in quanto in questo caso si sarebbe commossa
tutta Napoli e lo avrebbe aiutato, e che occorreva beneficare i presidenti dei
Seggi, in modo che dimenticassero di
andare a liberare il re; la regina
provvide a distribuire uffici ai presidenti dei Seggi e ai capi del popolo.
Ma, mentre in città erano contenti, Ottino
Caracciolo e Annecchino Mormile erano
pieni di sdegno e dispetto, lamentando che la regina, che essi avevano
liberato dalla servitù, si fosse dimenticata di loro; mentre aveva donato a
Ottino, la contea di Nicastro, ciò che aveva fatto venire ad Annechino, maggior
rabbia.
Sergianni era invece geloso di Sforza, che aveva
ottenuto una maggior dignità e potenza e, stando a Corte, poteva superarlo nei
consigli dati alla regina, la cui lascivia gli faceva sospettare ben altro; e
aveva cercato di allontanarlo, approfittando di un’occasione che gli aveva
offerto Braccio di Montone.
Castel Sant’Angelo a Roma, era tenuto sotto le
bandiere della regina e sotto la custodia di Braccio di Montone, che era in
difficoltà, e Sergianni aveva proposto al Consiglio, di mandare Sforza a
soccorrerlo e così fu disposto. Tolto di mezzo Sforza, vi era Urbano Origlia
che per la sua bellezza e valore ogni giorno saliva di più nelle grazie della
regina, che lo aveva mandato come ambasciatore, per rappresentarla a Costanza,
dove si teneva il Concilio sullo scisma e dove, alla presenza dell’imperatore,
erano rappresentati tutti i principi cristiani.
Sergianni, rimasto padrone della casa della
regina, intendeva essere padrone anche della regina, e una sera che stavano
cenando con il re, gli aveva chiesto di cacciare dal regno tutti i francesi; il
re gli aveva risposto che bisognava pagarli per il servizio reso, per averlo seguito
dalla Francia; a Sergianni si era unita la regina, che aveva chiesto, in modo
imperioso, di cacciarli.
Il re, non potendo soffrire tanta insolenza, si
alzava da tavola, recandosi nella sua camera, dove la regina poneva degli
uomini di guardia. Il giorno seguente la regina emetteva un bando, disponendo
che i francesi lasciassero il regno entro otto giorni; i francesi vedendo che
il re era prigioniero, se ne andarono subito.
Il regno e la regina rimanevano nelle mani di
Sergianni, il quale faceva restituire la carica di Giustiziere al conte di Nola,
al quale dava in moglie senza dote, la sorella; un’altra sorella la faceva
sposare al conte di Sarno.
Tutto questo modo di spadroneggiare di Sergianni,
aveva suscitato grande invidia nei baroni e grande infamia della regina,
specialmente di quelli che parteggiavano per i Durazzo ed erano stati
beneficati da Carlo III e Ladislao; “e andavano
pubblicamente mormorando che un re innocente non doveva esser prigioniero nella
stessa casa dove l’adultero giaceva con
la moglie”
Sergianni, essendo
il più saggio e prudente di quel tempo, faceva distribuire le pensioni che in
precedenza erano state versate ai francesi, ai gentiluomini e ai capi delle
Piazze; e per tener buona la plebe, pronta a creare tumulti, con denari della
regina, aveva procurato vettovaglie, vendute a basso prezzo; ma, suo malgrado,
Sforza era tornato malsoddisfatto, facendo gridare “Viva la regina e muoia il falso consiglio”, in quanto il problema
sorto a Roma a Castel Sant’Angelo, era stato dovuto alla circostanza che
Sergianni, ad arte, non aveva mandato a tempo debito, le paghe dovute ai soldati, per farli passare dalla parte di
Braccio che lo aveva messo sotto assedio.
Nel frattempo era eletto papa Martino V, Oddone
Colonna (1417-1431), e la regina, mandava dal nuovo papa, per congratularsi
della nomina, i legati Belforte Spinelli di Giovinazzo, vescovo di Cassano e
Lorenzo Teologo, vescovo di Tricarico, promettendogli la donazione di Castel
Sant’Angelo e Ostia e Civitavecchia (che erano conquiste fatte da Ladislao). Al
papa si erano rivolti i francesi, chiedendo la liberazione di re Giacomo e il papa aveva mandato dalla regina, Urbano
Origlia, accompagnato dal fratello Giacomo e dal nipote Antonio Colonna per
trattare la liberazione di Giacomo, richiesta dal re di Francia.
Sergianni, temendo che con la liberazione di Giacomo,
tornando ad essere re, gli facesse fare la
stessa fine di Pandolfello, indusse la regina a richiedere di essere solo lei
incoronata dal legato del papa, concedendo al fratello del papa il ducato di
Amalfi e al nipote, il principato di Salerno e per moglie Maria Ruffo, marchesa
di Cotrone e contessa di Catanzaro.
Il papa, in questo periodo, si era recato a
Firenze (1418) ove la regina mandava Sergianni, accompagnato da Antonio Colonna,
per promettergli la restituzione delle conquiste del fratello Ladislao in
cambio della sua incoronazione e investitura del regno, che il papa Giovanni XXIII (scismatico) gliel’aveva differita.
Sergianni, in questa occasione, chiedeva e otteneva
dalla regina, per la moglie, la celebre “Prammatica,
detta Filangiera”, dal suo nome,
Caterina Filangieri, riguardante il diritto feudale di poter succedere ai
fratelli del marito, qualora essi venissero a mancare senza figli maschi.
Con il nuovo anno, (1419), nel mese di gennaio
giungeva a Napoli il legato del papa per incoronarla, accompagnato dal fratello
Gennaro Colonna e nipote Antonio; Sergianni si rendeva conto che il legato
oltre all’incoronazione, avrebbe provveduto anche alla liberazione di Giacomo,
come avvenne; i seguaci dei Colonna, infatti, lo prelevarono dov’era rinchiuso,
e lo condussero cavalcando per tutta la città, riportandolo in Castel Capuano;
Giacomo, ritenendo di non poter vivere dove viveva la regina e tornava in
libertà, senza mantenere il potere e senza autorità, si imbarcava su una nave
di genovesi recandosi a Taranto, da
Maria vedova di Ladislao che lo faceva poi trasportare in Francia; qui Giacomo
si ritirava nel convento di Besançon
facendosi francescano e morendo
da monaco.
La regina il 2 di ottobre 1419 era stata pomposamente
coronata dal legato in Castelnuovo, facendogli leggere la bolla dell’investitura
concessa dal papa Martino V (che aveva
escluso il titolo di Regina di
Roma, chiesto da Giovanna), accompagnata dal giuramento di omaggio e
fedeltà dei napoletani, con festeggiamenti che si protrassero fino all’ultima
domenica di dicembre.
Sergianni, aveva ottenuto ciò che desiderava e si
vendicava, per esser dovuto andare in esilio, togliendo pensioni e incarichi a
chi li aveva in quel momento, per concederli a suoi sostenitori. Egli quindi si
imbarcava, recandosi a Gaeta, da dove scriveva alla regina, dandosi per pretesto malato; ma Giovanna ardeva dal desiderio di vederlo e lo fece
andare a Napoli, ricevendolo con grande amore e creandolo gran Siniscalco.
MORTE DEI DUE GRANDI
CAPITANI DI VENTURA
ATTENDOLO SFORZA E
BRACCIO DA MONTONE
|
S |
ergianni, gran Siniscalco, era rimasto arbitro
del governo: gli mancava solo il titolo di re; l’unico a poterlo contrastare
era Sforza, che era stato mandato a Roma per contrastare Braccio di Montone,
che stava tiranneggiando lo Stato della Chiesa.
Sforza aveva richiesto danaro alla regina, ma
Sergianni, che avrebbe dovuto provvedere a mandarglielo, deliberatamente non l’aveva
fatto per metterlo in difficoltà; e Sforza, per mezzo del suo segretario, aveva
chiamato dalla Francia, Luigi d’Angiò, figlio di Luigi II, facendogli sapere
che i baroni mal sopportavano la tirannia di Sergianni.
Ai primi del 1419 (come era stato scritto),
Giovanna, benché tanto dedita alla
libidine, non avesse mancato di badare alla giustizia e aveva pubblicato la
compilazione dei Riti della Gran Corte
della Vicaria, che aveva fatto riordinare dai migliori giuristi del tempo.
Intanto, Luigi
faceva sapere di accettare (1420) e, non solo mandava a Sforza il
privilegio di viceré e la nomina di gran Siniscalco del regno, ma si preparava
a venire in Italia con un grosso esercito; mentre Sforza rimandava alla regina il suo
stendardo e il bastone del suo generalato, sostituiti con quelli di Luigi III
d’Angiò con l’invito al popolo a passare dalla sua parte e a quella del suo
esercito.
Luigi, ben presto giungeva sotto le mura di
Napoli e, unito a Sforza, impedivano che vi entrassero le vettovaglie, per
spingere la città alla resa.
Questa improvvisa mossa, aveva lasciato
sbigottiti Sergianni e la regina; per di più, in segreto, vi erano ancora molti
partigiani del defunto Luigi II; le preoccupazioni aumentarono nel sentire che sarebbe giunta
un’armata navale, per sostegno di Sforza, e Giovanna e Sergianni chiedevano
aiuto al papa, mandandogli come ambasciatore Antonio Carafa; il papa però, si dava per malato, scusandosi e facendo
sorgere il sospetto di avere delle intelligenze con Luigi.
Ma Carafa, detto Malizia, trovava una buona soluzione per la regina; Alfonso
d’Aragona aveva preparato un esercito per la conquista della Corsica, posseduta
dai genovesi; il papa Martino V gli aveva mandato l’ambasciatore Garzia
Cavaviglia, cavaliere di Valenza, vietandogli di compiere questa impresa;
costui incontrava Malizia, che gli
suggeriva che il suo re Alfonso avrebbe potuto mandare l’armata a soccorrere la
regina Giovanna, con la possibilità, per lui, di succedere nel regno. Garzia
promise di scrivere subito al re, e Malizia
mandava, per riferire alla regina,
Pascale Cioffo.
La regina accettava immediatamente il progetto e
Cioffo si recava a Piombino dove lo attendeva Garzia, che si recava dal re
Alfonso in Sardegna, offrendogli l’adozione e la successione del regno; il re
Alfonso, sebbene sconsigliato, accettava e la regina lo adottava con atto
notarile, con promessa di concedergli Castenuovo e Castel dell’Ovo e la
Calabria col titolo di duca, come designato successore.
Alfonso mandava quindi, con molto danaro, sedici
galee armate, su cui s’imbarcava anche Malizia,
al comando di Raimondo Perillos; la regina ratificava l’atto di adozione con Perillos, disponendo
che nei quarti del suo stendardo, ci fosse anche quello d’Aragona e mandava il
danaro ricevuto, con l’investitura delle città di Capua e dell’Aquila a Braccio
da Montone, il quale giungeva in suo aiuto con tremila cavalieri.
Il re Alfonso sollecitato dalla regina si recava
a Ischia, dove lo raggiungeva per salutarlo, Sergianni con i baroni, e vedendolo bello e di spirito e aveva con
sé una bella e fiorita Corte,
conoscendo la debolezza di Giovanna, si insospettì che potesse cadere
nell’amore della regina; inoltre, i gentiluomini castigliani, catalani,
aragonesi, siciliani gli davano l’idea di una potenza che, funestamente gli faceva
sorgere nel capo la memoria di Pandofello.
Ma nascondendo i suoi sospetti lo invitava a suo
nome, a recarsi a Castel dell’Ovo per fare la cavalcata della città; Alfonso
recatosi a Napoli fu accolto dalla regina che si era recata a riceverlo fin
sulla porta, consegnandogli le chiavi e dopo feste, giochi e conviti (8 Luglio
1421) fu stipulato il nuovo contratto di adozione.
Luigi si era fortificato in Aversa e il papa
aveva mandato due legati a entrambi, per trattare la pace e si stabiliva una
tregua convenendo che, fino a quando non si
fosse conclusa la pace, Luigi avrebbe consegnato le città di Aversa e
Acerra ai legati, fino alla decisione che avrebbe stabilito a chi dovessero
appartenere.
Nel frattempo Luigi si recava a Roma dal papa e
Sforza si ritirava a Benevento, da lui allora posseduta; ma questa pace non doveva durare, in quanto
nel 1422 scoppiava la peste e Giovanna col seguito di Alfonso e Sergianni si
recavano a Gaeta, dove Sergianni, per gelosia e pensando sempre alla sua
posizione, suggeriva alla regina che
Alfonso, per tanta potenza, l’avrebbe in breve scacciata dal regno.
Lei, intimoritasi, partiva per Pozzuoli, ed essendo
nel frattempo cessata la peste, si recava a Castelnuovo, mentre Alfonso,
avvertito di questa partenza e temendo che per la volubilità della regina,
macchinassero qualche congiura, si recava a Castel Capuano.
L’accorto principe, rendendosi conto che tutto
proveniva da Sergianni, lo faceva arrestare (27 Maggio 1423), recandosi dalla
regina per giustificarsi; ma lei, avvertita, gli faceva chiudere le porte del
castello in faccia, ciò che provocava rumori tra cittadini e spagnoli. Giovanna
chiamava quindi Sforza e gli riferiva di voler adottare Luigi al posto di
Alfonso, il quale si trovava in cattive acque, in quanto assediato da Sforza in
Castel Capuano.
Ma ad Alfonso annunciavano che era giunta a Gaeta
la sua armata che aveva fatto apprestare in Spagna, al comando di Giovanni
Cardona; la regina chiamava in aiuto Sforza che, per sicurezza, la conduceva ad
Aversa, dove lei provvedeva a revocare l’adozione di Alfonso, per indegnità,
adottando al suo posto, Luigi.
La regina ardeva dal desiderio di vedere Sergianni libero e Sforza per
accontentarla, aveva patteggiato uno scambio con ufficiali aragonesi e catalani
che aveva fatto prigionieri a Casanuova, liberando Sergianni, accolto da
Giovanna ad Aversa.
Qui avevano luogo le nozze di
Chiara Attendola, sorella di Sforza, con
Marino Caracciolo, fratello di Sergianni; questo poi, provvedeva ad
avvertire Luigi che si trovava ancora a Roma dal pontefice, dell’adozione e che
gli era stato concesso il titolo di duca di Calabria, ma che avrebbe ottenuto quello
nominale di re, senza esercitare alcuna autorità, come era stato fatto con
Alfonso.
Luigi partiva da Roma
accompagnato da Luigi Colonna, capo delle truppe ecclesiastiche, recate in
aiuto della regina, che Martino V non aveva mancato di collegarla con Filippo
Visconti, duca di Milano, divenuto potente in tutta Italia.
Alfonso aveva chiamato Braccio
che assediava l’Aquila, il quale, non volendo abbandonare l’impresa (che
conduceva per proprio conto), per la ricchezza della città e della provincia,
mandava, Giacomo Caldora con altri ufficiali, con milleduecento cavalieri e
mille fanti; lo scontro tra le due armate aveva luogo alle paludi nei pressi di
Napoli, dove l’armata di Luigi e Sforza riportava la vittoria.
Alfonso dovette abbandonare
l’impresa e ritornare in Spagna, in quanto il re di Castiglia gli stava
muovendo guerra e lasciava il comando dell’esercito al fratello, don Pietro,
luogotenente di Napoli.
Nel frattempo giungeva anche
l’esercito del duca di Milano e la regina mandava Sforza a soccorrere l’Aquila, assediata ancora
da Braccio; Sforza si trovava presso lo sbocco del fiume Pescara e il mare era
tempestoso; un suo paggio era stato travolto dalle onde e Sforza aveva cercato
di salvarlo, ma col suo cavallo era stato travolto anche lui dalle onde e il
suo corpo scompariva (1424); dall’altro canto anche Braccio da Montone,
principe di Capua, moriva improvvisamente; la regina donava il principato a Sergianni,
ma lo concedeva senza l’uso del titolo di quel ricco feudo.
Successivamente (1431) moriva
il papa Martino V e gli succedeva il veneziano Michele Condulmer, figlio di una
sorella di Gregorio XII, che prendeva il nome di Eugenio IV; nemico dei
Colonna, il nuovo papa li accusava di usare le armi per abbattere i loro nemici
e li scomunicava; Eugenio IV appoggiava Giovanna e Luigi e della scomunica ne
approfittava Sergianni che desiderava la loro eliminazione e aveva mandato il
fratello Marino Caracciolo, con i soldati, per privarli degli estesi feudi che
avevano nel regno
La regina non mancava in
quest’anno di istituire i collegi dei
Dottori (giuristi) e dei Medici e
oramai si avviava al tramonto e abbandonandola
la sensualità, l’amore che tenacemente aveva portato per Sergianni, si era
affievolito, tanto che avendole egli chiesto l’investitura dei feudi di Salerno
e Amalfi, lei glieli aveva rifiutati.
ASSASSINIO DI
SERGIANNI CARACCIOLO
MORTE DI GIOVANNA II
E SUA ATTIVITA’ LEGISLATIVA
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iovanna si stava allontanando
da Sergianni, probabilmente a causa
dell’età ma anche dell’amicizia che le offriva Covella Ruffo, duchessa di Sessa,
dalla quale si sentiva protetta; infatti, Covella un giorno stando dietro la
porta, aveva sentito Sergianni che la
vituperava come donna vile e indegna, coprendola di parole disoneste e
ingiuriose, e sbuffando di rabbia, la trapassava con uno schiaffo, per avergli
rifiutato l’investitura principesca dei due feudi; Covella, a Giovanna che
piangeva, le aveva rinfacciato la sua debolezza e l’aveva convinta a fare
arrestare Sergianni.
La regina aveva dato incarico
a Ottino Caracciolo, Marino Boffa e Pier Palagano, acerrimi nemici di
Sergianni, di arrestarlo; ma certamente su suggerimento di Covella, che trovando
il terreno favorevole, non aveva dovuto far molto per convincerli in quanto avevano
preso l’iniziativa di assassinarlo.
L’occasione era stata data dal
matrimonio di Trojano Caracciolo, unico figlio di Sergianni, con la figlia di
Giacomo Caldora, Maria, e Sergianni lo aveva organizzato in Castel Capuano,
dimora di Giovanna; celebrato il matrimonio (17 agosto 1432), seguito dai
festeggiamenti, Sergianni dormiva nel suo appartamento e il suo domestico,
indotto dall’oro datogli da Ottino, gli
aveva annunciato che la regina era stata presa da male improvviso; mentre Sergianni,
indossato appena il farsetto. apriva la
porta per sentire cosa fosse successo, Ottino e gli altri, gli erano saltati
addosso coprendendolo di pugnalate e Sergianni cadeva tutto insanguinato; Covella
alla notizia aveva commentato: “Ecco il
figlio di Isabella sarda, che mi voleva soprastare e ridurre al niente”.
Giovanna, sebbene a malincuore
per questa uccisione, concedeva l’indulgenza agli assassini e ordinava la
confisca di tutti i beni di Sergianni Caracciolo; e quando Marino Boffa le
stava leggendo il relativo decreto, nel punto in cui aveva scritto che per l’insolenza del gran Siniscalco, la regina aveva
ordinato l’uccisione; lei lo aveva corretto, dicendo (di aver chiesto) “non la morte ma l’imprigionamento”.
Ora rimanevano due pretendenti,
il re Alfonso che si trovava in Sicilia e il duca di Calabria Luigi d’Angiò che
risiedeva nel suo ducato a Cosenza; il primo si aspettava la conferma
dell’adozione della regina; il secondo di rientrare in Napoli e avere
l’autorità; la duchessa Covella, temendo di essere abbassata da Luigi, aveva
convinto la regina a tenerlo nel ducato, con nuove incombenze.
Alfonso con alcune galee si
era recato nella sua isola d’Ischia facendo chiedere alla duchessa di
convincere la regina a confermargli l’adozione e dargli l’autorità; e nello
stesso tempo ricorrendo alla forza,
faceva promesse al marito, di alzare le sue bandiere, sostenendole con
le armi; ma Covella, già in rotta col marito, accusandolo di ribellione contro la regina, la convinse a mandare
soldatesche nelle sue terre e a non
confermare l’adozione ad Alfonso che se ne tornava in Sicilia.
Intanto Luigi d’Angiò stava
trattando (1433) con Amedeo VIII, primo duca di Savoia (1416-1440), il
matrimonio con la figlia Margherita; che una tempesta aveva fatto approdare a
Sorrento; la regina voleva farla entrare a Napoli con Luigi, per celebrare solennemente
le nozze, ma Covella, che voleva governare l’animo della regina, aveva voluto
che Margherita andasse a sposarlo a Cosenza; qui Luigi nel mese di novembre
dell’anno successivo (1434), moriva di febbre. senza lasciare figli e nel
testamento aveva disposto di essere seppellito a Napoli, e il cuore mandato in
Francia; ma il suo corpo rimase a Cosenza.
Anche Giovanna, malata, moriva
a sessantacinque anni (1435) designando a succederle, col testamento, Renato d’Angiò, fratello di Luigi che era
personaggio da romanzo piuttosto che monarca.
Tutti gli scrittori che
avevano scritto di Giovanna II, l’avevano dipinta come donna immersa nella
libidine e Summonte aveva anche scritto che
non avendo la regina, concepito figli da ambedue i mariti, usava rimedi per non
averne con i suoi molti rapporti adulteri.
Ma Giovanna era stata anche
impegnata nella attività di governo, in particolare aveva curato il riordino
legislativo, che era stato piuttosto impegnativo; e se si dà del tempo allo
svolgimento di questa attività, lo si deve togliere a quello sessuale, che certamente,
non intendiamo escluderlo perché Giovanna, come la zia, aveva una spiccata
sensualità; ma occorrerà
ridimensionarla, riportandola nei giusti limiti, senza ricorrere alle iperboli degli scrittori maschilisti.
Il dato certo è che la Giustizia
durante il regno di Giovanna II (come
scriveva il giurista Grimaldi) era stata ben amministrata, per aver innalzato
ai ministeri i primi giureconsulti dei suoi tempi. Giovanna aveva nominato Gran
Cancelliere (Ministro della Giustizia) Ottino Caracciolo che rivestiva anche le
cariche di Capo Rettore e Amministratore del Collegio dei Dottori dell’una e dell’altra legge, e con la
sua collaborazione in questo periodo vi
era stata un’attività legislativa piuttosto corposa.
Era stata infatti pubblicata, non solo la già nominata “prammatica Filangeria”, che rendeva successibili nei feudi, le figlie femmine,
in assenza di eredi maschi; era stato accresciuto il Collegio dei Teologi
istituito da Ladislao ed era stato rimaneggiato tutto il sistema delle lauree
per il Dottorato (delle quali, una riguardava la Medicina, l’altra l’Uno e l’Altro diritto, vale a dire Il
Diritto che comprendeva il Diritto Canonico
e il Diritto Civile, e vi era anche quella in “Vitirinaria”); compilati e
riportati in unico Corpo, denominato Riti
della Gran Corte.
Inoltre, i Corpi delle rendite reali erano chiamati Riti;
l’originario compilatore era stato Andrea d'Isernia al tempo di Re Roberto, il
quale aveva compilato un testo delle Costituzioni
del Regno col nome di Rubrica de
decimis e l’altro dei Riti della
regia Camera, che riportava in pratica tutte le decime versate alla Camera
Reale, fin dal tempo di Federico II.
Con Giovanna II era stata inoltre
reimpostata tutta la materia delle lauree, di cui diamo qualche cenno, relativo
alla tesi di laurea. Era stato infatti stabilito che il Gran Cancelliere
dovesse fissare il numero dei docenti che dovevano procedere agli esami per la
concessione della laurea di Dottorato
(istituita da Federico II), per esercitare l’avvocatura, nell’Una e l’altra legge, con un capo del Collegio, detto Priore; essa comportava una meticolosa regolarizzazione,
anche di disposizione dei dottori esaminandi, seduti nei loro banchi, in base
al grado di anzianità, durante
l’esame; tali disposizioni giungevano fino all’istituzione dei Bidelli.
L’esame del dottorando si
svolgeva in due giorni e appare interminabile, in quanto prevedeva anche la messa allo Spirito Santo; si divideva in due sessioni; il primo giorno,
dopo la messa, il laureando sosteneva l’esame in forma privata
(sul diritto canonico e corpus civilis), su domande poste innanzi
a una commissione di quattordici docenti, ciascuno dei quali decideva il voto
da assegnare il secondo giorno (che prevedeva il giuramento di ciascuno sul
proprio voto); il secondo giorno in forma
pubblica, con discussione sull’argomento posto, su un argomento che era
stato dato all’esaminando il giorno precedente.
Singolare le spese che il
laureando doveva sostenere, sotto forma di una serie di regali ben precisi (e
diversificati nel loro valore, probabilmente in base alle possibilità
economiche del laureando), iniziando dal Gran Cancelliere, che poteva essere o un astuccio guarnito d’argento per uso
scrittoio, del valore di cinque ducati, con una borsa galante (elegante) e un pettine d’avorio del valore di un
ducato oppure, un anello del valore di tre ducati, oppure una berretta con
un paio di guanti; e, a ciascuno dei
dottori del Collegio, un anello del valore di un ducato o in sua vece, un paio
di guanti; ere inoltre previsto che, i
dottori che promuovevano i dottorandi,
dovessero avere una veste per uno, di ducati cinque, oltre all’anello. alla
borsa e al pettine d’avorio; e al Notaio del Collegio (poi Segretario), per
tutti gli atti che questi dovesse fare (per l’esame privato e per l’esame
pubblico), un ducato e un paio di guanti.
Il laureando doveva pensare
anche ai Bidelli del Collegio, ai
quali sia per l’esame privato, che pubblico, doveva dare mezzo ducato per ciascuno
e un paio di guanti; per i Maestri della Sacra Scrittura che
assistessero a tale funzione, era previsto un paio di guanti e una berretta: e
un paio di guanti all’arcivescovo di Napoli come al Giustiziere degli Scolari nel caso fosse presente; questi doni dovevano essere
consegnati al Priore o al Notaio del Collegio che ne esaminavano il valore ...
ma ciò, prima che avesse luogo l’esame privato!
Queste disposizioni di
Giovanna II assumono rilevanza in quanto avevano subito modifiche solo dopo
quasi un secolo e oltre, negli anni 1524 e 1569.
FINE